L’esplosione dell’aperta contraddizione rappresentata dalla comunità di al-Bab (città siriana della provincia di Aleppo a meno di trenta chilometri dalla frontiera confine con la Turchia) era attesa ormai da settimane.

Ad un mese e mezzo dalla ripresa di Aleppo da parte di Damasco, ieri si è palesata sotto forma di raid aereo: l’aviazione russa ha ucciso tre soldati turchi e ne ha feriti undici in un attacco definito accidentale. Immediatamente sono giunte le scuse e le condoglianze del Cremlino al ritrovato alleato turco, quello che nel novembre 2015 abbatte un jet Sukhoi russo.

I presidenti Erdogan e Putin si sono poi sentiti al telefono: necessario coordinare le azioni in Siria contro l’Isis, hanno detto. Che si tratti di incidente o di un’operazione volta a ridimensionare i piani turchi, il raid di ieri è lapalissiano: al-Bab la vogliono tutti. La vuole Ankara per creare quella zona cuscinetto agognata da anni per impedire l’unità kurda, la vuole Damasco per evitare che il nord del paese diventi un’enclave turca.

E difatti negli ultimi giorni l’esercito siriano è avanzato prepotentemente a sud di al-Bab, chiudendo il cerchio sull’Isis, assediato a nord e ovest da Turchia e Esercito Libero Siriano (Els), opposizione anti-Assad. Altra contraddizione: Ankara continua a muoversi con il sostegno di milizie che – pur sedute al tavolo del negoziato con Damasco – insistono per far cadere la testa dell’attuale presidente.

Così, poco dopo il primo ingresso delle truppe turche nella periferia occidentale della città, è piovuto il raid che ha ucciso tre soldati e compiuto dalla Russia, principale sponsor del governo siriano. Prima o poi, viene da pensare, lo scontro doveva scoppiare.

C’era chi dava per imminente il confronto tra esercito governativo e Els (ormai a tre chilometri di distanza l’uno dall’altro), un’eventualità che romperebbe la tregua siglata a fine dicembre e mediata proprio da Mosca e Ankara. Ma forse il messaggio alla Turchia perché ridimensioni i suoi piani è giunto per altre vie.