Attorno alla vicenda Fedez, che in serata farà il suo ingresso nella commissione parlamentare di vigilanza (Sergio Zavoli si starà rivoltando nella tomba), è divampato il consueto dibattito sulla governance della Rai. Anzi, chiamiamoli vertici, gruppi dirigenti, visto che giustamente il termine reaganiano è stato ripudiato dallo stesso Mario Draghi e non solo dalle sinistre-sinistre.

Tuttavia, la noia rischia di prevalere sul dramma. In verità, ci sarebbe proprio bisogno, eccome, di una nuova legge. Il problema viene dalla quantità di cattive promesse di una favola lunga ventotto anni. Quindi, lo scetticismo è d’obbligo. Ma l’ottimismo della volontà prevale, a dispetto dei santi.

Nel 1993 fu varata – con stenti e ostruzionismi- la legge n.206 , che affidava la nomina del consiglio di amministrazione di soli cinque componenti ai presidenti delle camere. La brutalità lottizzatoria scemò almeno in parte, ma la furia dell’ex ministro Gasparri, con la norma n.112 del 2004 (sussunta l’anno successivo dal Testo unico delle radiodiffusioni), ripristinò il vecchio regime, con elezione di nove persone da parte della commissione bicamerale.

Arriviamo alla triste leggina del governo presieduto da Matteo Renzi, la n.220 del dicembre del 2015, approvata definitivamente dal senato per alzata di mano insieme agli auguri natalizi. Con essa accadde qualcosa di particolarmente grave.
In quasi cinquant’anni di consolidata giurisprudenza costituzionale, infatti, il servizio pubblico era sempre stato collocato sotto l’egida del parlamento. Con il testo di rito renziano, ecco che l’ordine degli addendi veniva sovvertito: il governo diventava il baricentro, potendo altresì indicare l’amministratore delegato cui erano conferiti enormi poteri. Ricordiamoci della sequenza storica. Si realizzava, al di là dei nomi, un vero e proprio vulnus del sistema, giudicato da varie e qualificate opinioni giuridiche eversivo rispetto ai principi della Carta.

Ora, ci si appresta a rinnovare la complessiva direzione dell’azienda con i traballanti e discutibili criteri del 2015. In assenza di una generale visione dell’universo crossmediale. Nel frattempo, il baricentro si è spostato dalle cose terrestri al cielo degli Over The Top.

Che fare? Candidate e candidati al prossimo consiglio di amministrazione hanno inviato il proprio curriculum e dal ministero dell’Economia (la proprietà) si fa sapere che si va avanti con le norme attuali.
Quindi, le urla riformatrici seguite all’esternazione non gradita di Fedez, volte a ripetere il mantra del fuori i partiti, a partire dalle dichiarazioni di Roberto Fico- slogan sentito da numerosi lustri ma rimosso nei momenti delle nomine-, rischiano di azzittirsi senza neppure la prova sul campo. Le proposte di riforma depositate, a cominciare dagli articolati del Mov5stelle, del partito democratico, nonché di Liberi e uguali, ci sono e indicano per lo più la strada della costruzione di un’autonoma fondazione cui andrebbero proprietà e scelte apicali. Purtroppo, ferme e bloccate.

L’ex presidente di viale Mazzini Roberto Zaccaria ha suggerito di discutere nelle aule parlamentari una mozione di indirizzi sulla missione del servizio pubblico e sui criteri di selezione delle candidature. Non solo. La direttiva 2018/1972, appena entrata nell’ordinamento, riguarda il recepimento del codice per le comunicazioni elettroniche. E lì gli articoli 6,7,8 e 9 offrono indicazioni cogenti sulle modalità di azione delle istituzioni preposte alla regolazione del settore.

Insomma, meglio sarebbe rimettere seriamente le mani all’assetto legislativo, conformandolo alle logiche europee e al dibattito ormai arato sulla tipologia dell’organismo che potrebbe frapporsi alle ingerenze dei diversi poteri, partitici e non. Come accade in Gran Bretagna o in Germania, ad esempio.

Per arrivare all’ora x della piccola rivoluzione è necessario avere un periodo limitato di transizione, realizzabile attraverso un democratico commissariamento del servizio pubblico. Non con qualche illuminato tecnocrate, bensì con una geniaccia o un geniaccio dell’immaginario.