Lo scorso 19 marzo è apparso sulla Gazzetta ufficiale il decreto del Presidente del consiglio che disciplina la riduzione della partecipazione di Rai s.p.a. nella società Rai Way. Quest’ultima è la struttura che possiede torri e tralicci utilizzati per trasmettere i segnali radiotelevisivi. Insomma, senza quei pali con i rispettivi fili, le previsioni di McLuhan sarebbero rimaste dei brillanti aforismi, passandosi direttamente dalla galassia di Gutenberg alla capillarità intrusiva della rete.

La Rai ha un’antica tradizione (come fu per la vecchia Stet-Sip) nell’elettronica e nell’impiantistica, svolgendo per lunghi tratti della sua storia un ruolo di battistrada nella ricerca e nella sperimentazione tecnologica: dai satelliti di medo peso oggi tornati di attualità, alla scoperta del continente digitale, alla cosiddetta alta definizione. E di tutto questo Rai Way (di cui la casa madre detiene il 64,97% delle quote) è lo scrigno dalle uova d’oro, se è vero che vanta un rilevante attivo di bilancio.

Il dcpm varato il 17 febbraio colpisce al cuore il gioiello di famiglia del servizio pubblico, permettendo (suggerendo?) all’azienda pubblica di scendere fino al 30%. Tradotto, perdere la maggioranza. Curiosamente, il ministro dello sviluppo Giorgetti, nel corso dell’audizione presso la commissione parlamentare di vigilanza di giovedì 17 marzo, ha sostenuto che basta il 30% per controllare una società. In caso di azionariato sparpagliato, forse. Ma qui non si capisce come.

La storia, in verità, è piuttosto tortuosa. Nel 2000 l’allora presidente della Rai Roberto Zaccaria immaginò un’intesa con il gruppo statunitense di Crown Castle per entrare nell’universo delle telecomunicazioni. L’ipotesi venne osteggiata e non si approdò a nulla. Nel 2014 fu emanato un provvedimento ad hoc (legge n.89) per impedire che la proprietà di viale Mazzini scendesse sotto il 51%. Si vociferava con insistenza di un’intesa con la cugina Ei Tower del gruppo di Berlusconi. Si levò un coro di contrarietà, per l’evidente violazione di ogni regola elementare di tutela della concorrenza.

Ora, però, si persevera a dispetto dei santi. Il matrimonio avverrebbe sempre con la società omologa in cui Mediaset (oggi si chiama Mfe, dopo gli acquisti in Europa) ha mantenuto il 40%, essendo andato il 60% al gestore di fondi infrastrutturali F2i. Rientra in scena come il prezzemolo Cassa depositi e prestiti, per funzionare da riequilibrio e garantire un presunto indirizzo pubblico.

Se tale fosse lo svolgimento dell’ennesima puntata del romanzo, molti buchi, omissioni e non detti coprirebbero la faccenda. Se la Rai perdesse la maggioranza di una delle architravi su cui si regge, incasserebbe i denari della vendita o li conferirebbe nella neonata società, per acquisire Ei Tower? Un bel regalo di nozze a Berlusconi? La commissione di vigilanza, da cui si sono alzate comprensibili proteste per aver potuto discutere a cose già decise dal governo, sentirà il prossimo 29 marzo i vertici di RaiWay. Chissà se il mistero si dipanerà almeno un po’.

Tuttavia, è utile sottolineare che, in ogni caso, l’incongruenza rimane. Non ha proprio senso cedere un anello strategico del servizio pubblico, per di più rimettendo in gioco un capitolo assurdo – l’intreccio duopolistico, il patto con Mediaset- cui è augurabile che le autorità competenti guardino con severità. A meno che non ci siano arcani ignoti o che, banalmente, sia così urgente far cassa per sanare il debito accumulato negli anni. Eppure, simile eventualità è stata scartata proprio dal governo.

Una via alternativa si profilerebbe se la Rai, finalmente, decidesse di entrare nel grande gioco della rete unica: nell’avventura necessaria della piena copertura del territorio con la banda ultralarga. Lì le torri e gli im- pianti dell’età radiotelevisiva tornerebbero giovani, grazie alla possibilità di collegarsi ai satelliti o di usare il wi-fi: strumenti fondamentali per andare nelle zone impervie, neglette o difficilmente raggiungibili dai cavi scavati nel terreno.

Una scelta sbagliata ha la possibilità di diventare un errore provvidenziale.