Le anticipazioni della proposta del premier Renzi sulla Rai fanno pensare ad una brusca controriforma. Ad un brusco risveglio al tempo che precedette la riforma del 1975. Quella che – con una piccola rivoluzione copernicana – spostò le competenze sull’azienda radiotelevisiva dal potere esecutivo al Parlamento. Il vecchio monopolio di Stato a baricentro democristiano (la Dc, però, qualche spazio lo lasciava anche agli altri) divenne così il servizio pubblico italiano.

Certamente non furono rose e fiori. No, l’agognato pluralismo degenerò nella ruvida lottizzazione partitica. Intendiamoci. L’allora «pentapartito» fece la parte del leone, lasciando fuori dal comando chi era in odore di comunismo. Benché quest’ultimo si coniugasse nella storia italiana alle punte alte e prestigiose della cultura. Tuttavia, dopo la legge n.103 nacquero esperienze coraggiose e di avanguardia, come ad esempio quella del gruppo di «Cronaca». E, ovviamente, le esperienze belle e prefiguranti della seconda rete televisiva diretta da Massimo Fichera, nonché del tg2 di Andrea Barbato. Fino a che il «fattore K» si sciolse e si appalesò la tv cult di Curzi e Guglielmi. Pure il tradizionale e pacioso primo canale tenne conto del cambiamento ed assunse interessanti tratti nazional-popolari.

Ecco, ora arriva il flash back e una vicenda così densa viene mestamente azzerata dalla leggerezza non calviniana di Renzi. Che di controriforma si tratti è evidente, se verranno davvero messe in prosa giuridica le anticipazioni de la Repubblica. Il governo diviene il dominus, scegliendo il capo azienda che, naturalmente, si chiama amministratore delegato. Dire direttore generale sa troppo di antico, anche il linguaggio ha i suoi simboli. Il resto (consiglio di amministrazione, la stessa commissione parlamentare) è noia, punteggiava il Califfo. Appunto, la velocità futurista (per dire) del Presidente del consiglio non ammette confronti, articolazioni, bilanciamenti.

Dunque, è un salto all’indietro? Certo. È la messa in soffitta della giurisprudenza costante della Corte costituzionale, sempre tesa a sottolineare la centralità delle Camere? Altrettanto evidente. Ma attenzione. Non è solo una restaurazione. È pure peggio. Se leggiamo il capitolo Rai nel contesto dei conflitti in corso – revisione del bicameralismo, legge elettorale, Jobs Act, normalità della decretazione d’urgenza – la luce si accende in modo più forte e inquietante. I media non sono «altro», magari espressioni di una sfera autonoma e indipendente: ma parte integrante dell’oligarchia consensuale. Quella cosa che i politologi chiamano «post-democrazia». E la Rai in Italia è sempre stata un avamposto prefigurante, un laboratorio anticipatore dei passi successivi del e nel sistema politico. Forse, allora, la controriforma di Renzi sposta sì le lancette indietro di quarant’anni, ma insieme le mette di qualche minuto avanti.

In tutto questo ci sono progetti impegnativi già depositati in Parlamento: Civati/Sel; Marazziti; Mov5Stelle. Ci faccia il piacere, Presidente. Almeno il governo depositi il suo testo, prima che la Rai si fermi e si blocchi, aspettando di capire da che parte andare, come Gassman nell’indimenticabile «Armata Brancaleone».