L’Ad della Rai Carlo Fuortes ha una lunga storia manageriale. Non è immaginabile, quindi, che la proposta di riorganizzazione della Rai appena varata non sia stata ponderata nei suoi effetti. Effetti diretti e pure collaterali. Ben venga la rottura del tabù delle reti, luoghi del potere lottizzato e, purtroppo, di intrusione di strutture esterne pronte a consegnare format e programmi chiavi in mano.

Secondo il progetto appena varato dal consiglio di amministrazione e ora nelle mani del capo azienda (così lo volle la legge Renzi del 2015, che affidò un ruolo determinante all’Ad scelto dal governo) per definirne tempi e modalità di attuazione, si passa a dieci direzioni per generi.

Strutture sovraordinate rispetto ai classici canali (compresa Rai Play e offerte specializzate) ridotti a luoghi di trasmissione senza vera autonomia.

La nomenclatura tematica suscita qualche curiosità: l’intrattenimento è diviso in due (day time e prime time, chissà perché), contenuti Rai Play, cultura ed educational, documentari, cinema, fiction, sport, kids (ragazzi?), approfondimento.

Ma è proprio l’accorpamento dell’approfondimento che fa venire i brividi.

Siamo in un’età attraversata da pulsioni omologanti e dalla ricerca del consenso facile verso chi sta al governo (vedi l’appiattimento indecente di tante testate verso Mario Draghi, con ritmi e intensità napoleoniche). Ridimensionare la libertà e lo spirito luterano di certe rubriche (Report e Presa diretta sono i casi più esposti e scomodi) rischia di diventare uno sbocco probabile, se si sancisce un livello superiore inevitabilmente attratto dalla logica del Conte zio manzoniano: sopire, troncare… Del resto, questo è il contesto e non si vedono al momento rivoluzioni culturali. Ancora l’ultima puntata di Report è finita nel mirino.

Intendiamoci, il superamento di reti e testate è un’antica richiesta del movimento democratico dell’informazione. Fu agitata negli anni della riforma del 1975 dal gruppo di Cronaca dell’era di Massimo Fichera. Quel contenitore della seconda rete, coraggioso e prefigurante, fu il calco da cui hanno preso spunto i migliori talk successivi. E Renato Parascandolo, che di quel progetto fu tra gli artefici, ha recentemente proposto nelle iniziative dell’associazione Articolo21 uno schema apparentemente omologo. Tuttavia, con due differenze salienti.

Innanzitutto, si sottolineava la necessità di inquadrare un simile riassetto in una vera riforma del servizio pubblico, capace di rompere il cordone ombelicale che ora connette la Rai al governo e ai partiti, nonché – dopo la crisi di questi ultimi- a salotti e lobby di ogni tipo.

Inoltre, si legava un’ipotesi così ambiziosa alla ridefinizione di una vera carta di identità dell’azienda pubblica.

Insomma, senza un mosaico in cui inserire tale tessera, il pericolo che il tutto si risolva in una duplicazione dei ruoli e delle posizioni dirigenti è alto.

Non solo. Non è chiaro se la riorganizzazione sia pensata per la trasformazione crossmediale di una Rai che viaggia sui crinali del digitale e dell’alta definizione, ma con la testa ferma alla stagione analogica.

Si rende indispensabile un ripensamento, dunque, non solo dal lato dell’offerta, bensì anche (e soprattutto) dal versante dei nuovi caratteri della domanda e della fruizione.

Si avvicina la scadenza del rinnovo del contratto di servizio, che regola i rapporti con lo stato. Lì si potrebbero affrontare i nodi aperti.

Altrimenti, senza garanzie di un reale rilancio della produzione fondata sulle intelligenze interne, liberando i palinsesti dall’assalto delle solite agenzie esterne, si delinea una curiosa pianificazione in chiave mercantile. Un po’ di spiriti reaganiani, un po’ di piani quinquennali.

La commissione parlamentare di vigilanza dirà qualcosa?

PS. Il deputato Michele Anzaldi depositò un’interrogazione presso la commissione di vigilanza, che gentilmente riprendeva i temi sottolineati da il manifesto dello scorso 6 ottobre sui presunti compensi per gli ospiti dei talk e all’assenza costante nei dibattiti del nostro quotidiano.

Purtroppo, la risposta dell’azienda ha confermato entrambe le questioni. Meglio sarebbe, in tali casi, aver torto.