Lei ha l’aria allucinata, lo sguardo rapito estaticamente fissa la tivvù. Lui torna a casa (dall’ufficio?), lei neppure si volta per un saluto e continua a farsi rapire dal piccolo schermo. Coppia in crisi? O spot educativo sulla depressione? Nulla di tutto questo.

Perché quando lui prende tra le mani dal tavolo vuoto una busta con su scritto «Rai» e la straccia il televisore va in mille pezzi provocando nella domna una specie di mutazione feroce.

Come una furia scatena una tempesta travolgendo il poveraccio finché questi non rimette a posto la busta. È lo spot che invita a pagare il canone gli utenti in ritardo. È strano perché l’effetto dello spot è quasi autoironico senz’altro in modo involontario.

Ciò che mostra, infatti, è l’idea di una televisione che inebetisce fino al completo rincitrullimento; non c’è un solo dettaglio di piacevolezza o di vita in quelle case nessuna tavola apparecchiata,non un bicchiere di vino per un allegro aperitivo dopo il lavoro, non un un libro o uno straccio di conversazione. Un paesaggio umano opaco di zombies.

In un altro spot i «lobotomizzati» sono dei bambini, anche qui non si vedono giochi o altre tracce di vita in giro, i piccoli sono ammutoliti, e reagiscono solo quando si spegne la televisione. Che tristezza. Sono questi gli effetti di sessanta anni di tv?

A vederla così viene voglia non solo di non pagarlo il canone ma di spegnere il telecomando a lungo. Magari per una bella chiacchierata?