Il 15 agosto del 1947 Jawaharlal Nehru pronunciava un discorso intitolato «Appuntamento col destino», inserendo gli eventi che portarono alla liberazione del subcontinente dal giogo coloniale britannico in una traiettoria compiuta dall’inevitabile nascita dell’India indipendente. Il primo premier indiano non poteva immaginare che proprio il destino, inteso come un’imprevedibile sequenza di accadimenti che si dipana secondo un ignoto disegno superiore, avrebbe influenzato enormemente sia la propria progenie sia, incidentalmente, la storia del Paese che aveva contribuito a fondare alla guida dell’Indian National Congress.

Dagli assassini di Indira Gandhi (figlia di Nehru) e Rajiv Gandhi (figlio di Indira), passando dalla morte tragica del secondogenito prediletto di Indira, Sanjay, i passaggi di consegne della dinastia più potente dell’India contemporanea sono sempre stati influenzati dall’ineluttabilità di un destino crudele, spesso accettato malvolentieri in nome di una missione più grande: «Servire la nazione», sempre e comunque, nonostante tutto.

Rahul Gandhi, primogenito di Rajiv e Sonia Gandhi, classe 1970, per anni ha cercato di ingannare il destino di famiglia, disinteressandosi dello scettro che, prima o poi, sarebbe dovuto passare di mano, seguendo un rito autoimposto ben lontano dalla vocazione democratica che il bisnonno Nehru aveva prefigurato per la nazione.
Per anni la presidenza del Congress sembrava dovesse toccare alla sorella Priyanka, primogenita e così simile a nonna Indira, la più carismatica tra i due. La più intelligente, dicevano le malelingue, snobbando il giovane Rahul che pur entrava in politica 13 anni fa, ma condannato all’eterno ruolo di bamboccione; «pappu» in hindi, come ancora lo chiamano i suoi detrattori.

Complice un matrimonio osteggiato dalla famiglia, Priyanka si è progressivamente allontanata dalla vita pubblica, mentre Rahul veniva promosso nella gerarchia del partito prima guidandone l’ala giovanile, poi diventandone il vicepresidente, appena sotto mamma Sonia. Il Congress, intanto, soccombeva sotto i colpi del populismo hindu del Bharatiya Janata Party (Bjp) e si scavava la fossa uno scandalo di corruzione dopo l’altro.

Fallendo la personale missione di formare una nuova generazione di leader in grado di sostituire la vecchia guardia, a Rahul furono affidate campagne elettorali locali (Uttar Pradesh 2012) e nazionali (2014), sempre finite in catastrofe. Contro il Bjp di Narendra Modi, in particolare, a Rahul fu imputata la peggiore performance di sempre del «partito di famiglia», in grado di aggiudicarsi solo 44 seggi parlamentari su 543.

 

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Rahul Gandhi ascolta le rivendicazioni dei contadini durante una protesta a New Delhi (Xinhua)

 

Ciò nonostante, lunedì 11 dicembre Rahul Gandhi ha compiuto il proprio destino, diventando presidente dell’Indian National Congress, unico candidato alle elezioni interne del partito. Succede alla madre Sonia, che aveva guidato il partito per gli ultimi 18 anni. A lui, in barba ai processi meritocratici e democratici, è affidato il compito di resuscitare un partito moribondo, costruire un’alternativa concreta allo strapotere dell’ultradestra hindu, immaginare e promuovere una nuova idea di India più inclusiva, tollerante, laica.

Un destino crudele nelle tempistiche, proprio ora che l’avanzata dell’ultrainduismo di mercato appare inarrestabile e il panorama politico nazionale non fornisce alcuna opposizione degna di questo nome in grado di minacciare un eventuale secondo mandato di Modi, esito oggi più che probabile nelle prossime nazionali del 2019. E chi, negli ambienti progressisti indiani, auspicava una vera rivoluzione dal basso nell’organigramma del Congress, una ventata di cambiamento che spazzasse via una classe dirigente anacronistica, in rotta col proprio storico elettorato di riferimento – le classi indigenti, i musulmani, i progressisti, gli imprenditori, gli hindu moderati – e in grave carenza di immaginazione per disegnare l’India di domani, si è dovuto accontentare di una nuova presidenza Gandhi calata dall’alto, con la benedizione della stessa vecchia guardia responsabile del fallimento politico degli ultimi quattro anni.

Paragonato all’aura di invincibilità emanata da Modi sin dal 2014 – esemplare eccellente del leader autoritario cui molti, in India, hanno delegato la responsabilità di raddrizzare le sorti economiche del paese – lo stile politically correct di Rahul Gandhi sulla carta ha ben poche chance: uomo di popolo e mattatore alle urne il primo, «figlio di» educato all’estero e perdente seriale il secondo.

Eppure il 2019 è lontano e, tra i sostenitori del Congress che fu, vive la speranza che il nemmeno 50enne Rahul abbia tutto il tempo, chissà se la voglia o il coraggio, di riformare il partito e contrastare l’ascesa del conservatorismo hindu. Su questo si gioca il destino dell’India.