Il titolo potrebbe portare fuori strada, svegliando sensi di colpa o ricordi d’infanzia lirico-patetici. Invece Un quaderno per l’inverno (dopo il Fabbricone di Prato, che l’ha prodotto, andrà in scena all’India di Roma dal 19 al 23 aprile) è un racconto sorprendente. Inizia come un thrilling per condurcene subito fuori verso una sorta di western metropolitano dove un ladro aggressore e un insegnante dalle facili sicurezze portano avanti una sfida che ha in palio il loro rapporto, la loro umanità, la possibilità stessa del dialogo che chiunque potrebbe allacciare con l’altro. Succede sempre più raramente a teatro che una storia che vediamo rappresentata sulla scena ci coinvolga, e va dato atto quindi all’autore, Armando Pirozzi, di aver trovato stavolta, più che in altre occasioni, la misura giusta per legare lo spettatore al gioco dei due personaggi. E naturalmente per dare ai due bravi interpreti, Luca Zacchini e Alberto Astorri, la possibilità di entrare nella coscienza del pubblico, e assumerlo a fianco a sé sulla scena, senza nessun bisogno di «fare numeri» o qualche bischerata interpretativa. Tutto procede in sottrazione attorno a quel tavolo, studio o tinello, animato solo da un sacchetto di arance destinate a finire come è naturale nel trionfo della spremuta.

Ma chi è riuscito a lavorare puntando tutto a quella sottrazione, estetica quanto morale, è la regia di Massimiliano Civica, che volutamente in punta di piedi ha orchestrato la prova dei due attori, togliendo e asciugando tutto quanto era possibile. Così che le azioni e le reazioni, le provocazioni e le paure, sono tutte contenute anche se «assolute». Perché se è vero che lampeggia un minaccioso coltello (infine riservato alle arance) oggetto del contendere è solo il «quaderno» del titolo, supporto casuale su cui il professore ha buttato giù , cosa assolutamente per lui inusuale, dei versi.

E questi, residuo superfluo e senza valore pecuniario della rapina compiuta dall’altro (il computer è stato immediatamente «ricettato») son stati capaci di attirare una qualche attenzione della moglie in coma del rapinatore. Su questo particolare, chissà se vero, si apre però una voragine: la posta in gioco non sarà più la rapina o il valore «taumaturgico» di quei versi, ma la ragnatela di sentimenti che finisce per legare quelle due creature solitarie. L’accettazione dell’altro, il rispetto e quindi l’incontro che cresce sulla conoscenza, è una malta capace di legare, e armonizzare, umanità disparate, esistenze differenti che scelgono e acquistano la capacità di comunicare. Anche allo spettatore: se la durata della piéce non supera l’ora, può rimanere a lungo nel cuore il sapore amaro di quell’incontro.