Mark Ravenhill è uno degli autori di testi teatrali più noti e apprezzati al mondo: il suo Shopping and Fucking spalancò a metà degli anni 90 la porta della nuova, e più eversiva, drammaturgia. Inglese e non solo, con successo strepitoso e messinscene innumerevoli in tutta Europa. Da qualche anno poi è drammaturgo in residenza alla Royal Shakespeare Company, massima istituzione teatrale britannica. Già questa sorta di apparente «ossimoro» induce curiosità, e svela possibili chiavi di lettura della sua scrittura. O di «riscrittura», se pensiamo al suo testo più recente, che giunge ora in Italia, una delle poche produzioni originali e motivate della stagione del Teatro di Roma: Candide, ispirato a Voltaire (all’Argentina ancora oggi e domani, mentre il testo è stato pubblicato per l’occasione da Titivillus, pp.94, 11 euro).

Lo spettacolo, seguendo l’articolazione del testo, risulta complesso, perché le cinque scene di cui si compone svariano nel tempo e nei luoghi, in una sorta di apologo totale e onnicomprensivo degli ultimi tre secoli, che illustra, indaga e moltiplica il racconto del Candido volteriano. Il rifiuto della realtà, ironicamente marchiata a fuoco come «il migliore dei mondi possibili», in una denuncia radicale e disillusa, si applica quindi fino ai nostri giorni, attraversando nello stesso tempo tutti i linguaggi dello spettacolo contemporaneo, dalla commedia al tragico, dal teatro di parola al musical. Una cavalcata in cui la ragione illuminista dovrebbe restare la chiave, mentre la storia mostra tutta la sua inadeguatezza, e anche la casualità, l’approssimazione e quindi l’orrore. Un esercizio di affilata crudeltà che svela il ruolo richiesto a Ravenhill dalla augusta assise shakespeariana. Dove non a caso nei 60 approdò per la prima volta la «crudeltà» di Artaud grazie ai due maestri della regia Charles Marowitz e Peter Brook.

12visdxaperturaCandide di Mark Ravenhill - regia Fabrizio Arcuri - foto Achille Le Pera - Mascino, Nigro, Mazza .03 - Copia

A Roma questo Candide approda ora grazie a Fabrizio Arcuri, che con il suo Teatro degli Artefatti già si era confrontato con la drammaturgia inglese contemporanea. Forse il palcoscenico dell’Argentina e la complessità del testo, richiederebbero una assai più lucida e organizzata messinscena, e una compagine di attori che non sgarri un attimo per poter affondare la lama di Voltaire e Ravenhill nella disastrata situazione di oggi, in quello che universalmente viene riconosciuto il peggiore dei mondi possibili.

Nonostante nell’ensemble figurino nomi di riconosciuta bravura (da Francesca Mazza a Filippo Nigro protagonista, oltre alla generosa e divertita guest star Luciano Virgilio), lo spettacolo sembra mostrare una continua «precarietà», confrontandosi attraverso una certa «condiscendenza» con le banalità, ridicole e orrifiche, dei nostri giorni. Ma forse questa è una precisa scelta registica, non troppo rara oggi e ovviamente lecita. L’uso del decalage e della messa in burletta di quanto si mostra, come cifra di regia, comporta ovviamente una serie di rischi facilmente immaginabile, dalla dispersione all’umorismo più ignaro.
In maniera davvero «paradossale» invece, i momenti spettacolari di maggiore concentrazione risultano così quelli delle proiezioni sui due schermi dei video di Luca Brinchi e Daniele Spanò. Arcuri ha curato anche i costumi, molti e multicolori, che spaziano assieme al racconto dai nei e cicisbei settecenteschi alla finzione contemporanea di un set cinematografico, a un Eldorado dai sensi narcotizzati, a un prossimo futuro figlio di contraddittori retaggi.

La scena funzionale ma in continuo movimento (a rischio anch’essa di dispersione) è di Andrea Simonetti. Elemento narrativo portante è così la «diabolica» presenza di Her, ovvero Erma Pia Castriota che con voce e violino sposta di continuo la frontiera del mondo di Candide dal 700 alla fantascienza, e ritorno. Un mondo che in maniera trasparente, velata solo da qualche incertezza o presunzione, svela il suo essere un baraccone tra i molti possibili, ieri come oggi.