«Il fatto c’è ma non costituisce reato»: sono passate da poco le 15 quando il giudice Roberto Ranazzi pronuncia la sentenza che assolve Virginia Raggi dall’accusa di falso in atto pubblico. La sindaca è in aula ad aspettare la sentenza, scoppia in lacrime, abbraccia i suoi avvocati. Poi va a stringere la mano del magistrato che ha rifiutato la richiesta del pubblico ministero.

NEL CORSO della requisitoria, l’accusa aveva sostenuto che «in casi come questo le circostanze convergono verso la condanna». Non è stato così, per il giudice la promozione al vertice del dipartimento turismo del Campidoglio del fratello di Renato Marra operata dalla sindaca e la difesa di quest’ultima della sua scelta davanti all’Autorità anticorruzione non contenevano falsi. Per la pubblica accusa c’erano invece «elementi per sostenere che Raggi fosse consapevole del ruolo svolto da Marra nella nomina del fratello: la sindaca mentì per non dimettersi in base al codice etico del Movimento 5 Stelle», che prevedeva le dimissioni anche per una semplice iscrizione al registro degli indagati. Questo movente, secondo Raggi, era del tutto privo di fondamento perché, aveva spiegato lei stessa proprio alla vigilia della sentenza, «nella prassi il codice etico non ha mai portato alle dimissioni». Quella regola non valeva per davvero.

Il reato era di quelli minori, quasi un cavillo. Ma l’eventuale condanna avrebbe automaticamente messo Raggi fuori dal M5S, scatenando un terremoto politico dai confini poco certi. A quel punto, la sindaca avrebbe dovuto decidere se dimettersi o se, in compagnia della sua maggioranza in assemblea capitolina, proseguire per il resto del mandato senza il simbolo pentastellato.

Rischio sventato: per Raggi si chiude una vicenda durata quasi due anni, per la quale i legali della sindaca avevano proposto la formula abbreviata del rito immediato. Una strategia difensiva che ha pagato. «Ritengo che il giudice abbia valutato in modo positivo il quadro probatorio che abbiamo proposto – commenta soddisfatto l’avvocato Pierfrancesco Bruno, difensore della sindaca – Il fatto che è stato posto all’attenzione del giudice è stato ritenuto assente di qualsiasi dolo».

Raggi esce dal tribunale assediata dai giornalisti. Gli attivisti che avrebbero voluto manifestarle solidarietà due giorni fa, e che erano stati consigliati di lasciare perdere da Raggi stessa, adesso promettono di ritrovarsi la settimana prossima in piazza del Campidoglio per festeggiare.

«QUESTA SENTENZA spazza via due anni di fango politico. Vado avanti per la mia città M5S», dice a caldo la sindaca. Più tardi affida un altro sfogo dal suo profilo Facebook. Questa volta assume i toni della donna delle istituzioni che incassa il risultato e rilancia la sua maggioranza: «Non provo rancore nei confronti di nessuno. Mi auguro che quanto accaduto a me possa divenire una occasione per riflettere: il dibattito politico non deve trasformarsi in odio». Verrà smentita immediatamente dai commenti dei vertici del suo partito.

L’amministrazione grillina non crolla, per lo meno non per via giudiziaria. Restano i nodi politici emersi in questi mesi, tra i quali quelli relativi al rapporto tra Raggi e Marra che innescarono la catena di dimissioni all’inizio della consiliatura. Resta la città coi suoi problemi in gran parte ereditati dalle amministrazioni precedenti.

RESTANO LE MIRE della Lega di Matteo Salvini, che affida alle agenzie di stampa un commento solo apparentemente pacificatorio: «Se c’era qualcuno che aspettava di vincere e di stappare spumante a colpi di sentenza non è questo il paese che mi piace – dice il ministro dell’interno – Da cittadino italiano e da amico di Roma sono contento che non sia una sentenza a porre fine a una amministrazione». Poi lancia una frecciatina al curaro: «Sul fatto che a Roma si possa fare tanto di più e tanto di meglio, ahimè questo sì. Per questo motivo da ministro sto cercando di fare l’impossibile per migliorare la qualità della vita dei romani».