Lo spezzone della discordia, quello della comunità palestinese, arriva a metà corteo, con una trentina di persone e due striscioni, tutti e due dedicati a Gerusalemme città aperta, quasi un preannuncio di nuove disgrazie ora che la decisione di Trump sul trasferimento dell’ambasciata sta per essere attuata. All’arrivo a porta San Paolo, i palestinesi si posizionano al centro della piazza. Sono tutt’altro che la delegazione più nutrita e visibile in mezzo ai sindacati (tanta Cgil ma anche Usb, Cisl e Uil), partiti (Rifondazione, P.c.i., Partito comunista, Partito comunista dei lavoratori, Potere al popolo, Sinistra anticapitalista, Leu e anche la federazione romana del Pd dietro lo striscione «antifascisti per i diritti e la sicurezza» e con il “reggente” nazionale Martina in piazza), studenti, associazioni (Emergency, Opera nomadi, Libera, Arci, giuristi democratici, circolo Mario Mieli). Eppure è per la presenza delle bandiere palestinesi che la Comunità ebraica ha deciso, due giorni prima del 25 aprile, di restare anche quest’anno (il quarto di fila) lontana da porta San Paolo, radunandosi prima alle fosse Ardeatine e poi in via Tasso.

Il palco dell’Anpi è posizionato come sempre sotto le mura che dividono piazzale Ostiense dal cimitero acattolico e dal cimitero di guerra, dove in mattinata si è svolta una commossa cerimonia per i caduti del Commonwealth nella guerra di Liberazione. Sulle mura le lapidi che ricordano il primo episodio della Resistenza a Roma, il tentativo di difesa di porta San Paolo nel settembre 1943. E sul palco due che allora c’erano: il partigiano Mario Fiorentini, comandante del Gap Gramsci, l’ultimo in vita dei gappisti romani, e il partigiano di Bandiera Rossa Modesto Di Veglia. Oltre a loro intervengono anche le partigiane Tina Costa e Jole Mancini, 98 anni, che in via Tasso fu incarcerata dalla SS. E poi il partigiano Mario Di Maio, che lunedì scorso si è trovato da solo a ricordare la Resistenza in una sala consiliare di periferia (peccato per chi si è perso lo straordinario racconto della sua fuga dal carcere minorile – «avevo menato al figlio di un fascista» – grazie al bombardamento sul quartiere San Lorenzo) e il partigiano Franco Iacobacci che nel’45 fu ufficiale di collegamento con la Brigata ebraica e oggi ha 96 anni.

Quando raggiunge il palco, la sindaca Virginia Raggi è già stata, come il presidente della Regione Zingaretti, agli appuntamenti della Comunità ebraica e, malgrado un’accoglienza non troppo festosa, va dritta al punto della polemica. «Come comunità cittadina non siamo stati all’altezza dei nostri padri che seppero restare uniti nel nome di un ideale più alto», dice con accanto l’assessore Bergamo, la persona che più ha lavorato alla lunga mediazione tra la comunità ebraica e l’Anpi. Un singolo contestatore le grida «buffona» ma chi gli sta attorno in piazza – tra i quali il deputato di Leu Fassina – lo allontana. Un gruppo di giovani comunisti cerca di coprirle la voce cantando. Ma Raggi insiste: «Qualcuno ha voluto inserire nel dibattito temi che nulla hanno a che vedere con la Liberazione e non siamo stati in grado di proteggere il nostro corteo unitario». A questo punto arriva una contestazione dalla comunità palestinese. «Dispiace per i fischi – dice il presidente della comunità Yousef Salman – ma la sindaca non può pretendere di escludere nessuno e ognuno ha diritto di manifestare con la bandiera che vuole».

Non la pensa così la presidente della comunità ebraica romana Ruth Dureghello: «Senza le bandiere palestinesi sarebbe stata una festa per tutti, oggi sinceramente non so per chi è. Il corteo ha accettato simboli che settant’anni fa non sarebbero stati ammessi e oggi sfilano in maniera offensiva e incomprensibile». Ma non è una disputa storica sul gran Mufti a dividere palestinesi ed ebrei romani, è la politica di Israele oggi. Ed è soprattutto per questo che è naufragata la speranza dell’Anpi nazionale, che ambiva a fare del 25 aprile unitario a Roma il preludio a un incontro di dialogo. Rimandato.