È una sorta di miracolo il fatto che ogni anno il cinema indipendente giapponese riesca a produrre ancora, a prescindere dalla situazione contingente in cui si ritrova a navigare, almeno uno o due lavori capaci di elevarsi al di sopra della media generale. Se il caso più clamoroso è quello di Kamera o tomeru na! (One Cut of the Dead), la commedia horror che due anni fa si rivelò un incredibile successo di critica e pubblico, nell’anno appena concluso l’opera che più sembra incarnare questo spirito fresco, gioioso e fuori dagli schemi del cinema indipendente giapponese è Ongaku (On-Gaku Our Music). Lavoro d’animazione diretto, scritto e disegnato da Kenji Iwaisawa e uscito agli inizi della scorsa annata, in periodo pre pandemia quindi, il film è al momento di nuovo in alcuni cinema dell’arcipelago, anche se è da poco disponibile su piattaforme streaming eper il mercato dell’home video. Con lo stato di emergenza appena esteso a sette prefetture, non si tratta di un lockdown ma una sorta di «chiudiamo tutto alle otto di sera e affidiamoci al buon senso della popolazione» da parte di un governo giapponese piuttosto in affanno, la riproposizione di Ongaku in alcune sale dell’arcipelago è ancora più significativa.
Senza considerare alcuni corti sperimentali usciti in passato, per Iwaisawa si tratta del debutto, un’opera prima per la cui realizzazione, il fim è tutto disegnato a mano, ci sono voluti ben sette anni. Tratto dal fumetto omonimo creato e autopubblicato da Hiroyuki Ohashi nel 2005, Ongaku racconta la storia di tre studenti ribelli, della loro noia esistenziale e di come la musica riesca a sollevare e dare senso anche a quelle vite che sembrano girare a vuoto. Tutto comincia quando Kenji, il leader del trio di amici, trova un basso elettrico e decide più per noia che per altro di formare un gruppo, anche se nessuno dei tre ha mai preso in mano uno strumento.

LA MUSICA IPNOTICA che esce dai due bassi elettrici e dalla batteria «suonati» dai tre amici ha qualcosa di tribale e di primitivo che colpisce un altro gruppo di studenti appassionati di musica. Questi finiscono per convincere i tre teppistelli a partecipare ad un piccolo concerto rock locale, che diventa il punto focale di tutto il lungometraggio. Si tratta di un lavoro di animazione di poco più di sessanta minuti, ma va completamente dimenticato il tocco da «anime» a cui molte generazioni di spettatori si sono abituate in questi ultimi decenni. Il tratto è volutamente semplice e quasi «brutto», anche perché si rifà in parte al disegno grezzo e originale del fumetto, ma raggiunge picchi di creatività lisergica quando è la musica a prendere il sopravvento sullo schermo.

IL FILM E’ TUTTO costruito di lunghi silenzi, a metà strada fra il tono surreale e quello minimalista, ma è anche punteggiato da molte scene comiche che lo rendono una piacevole esperienza visiva. La riuscita miscela di stili, da graphic novel esistenzialista in molte scene, con l’uso di animazione al rotoscopio in altre, e con un disegno pastellato in altri passaggi, è forse la qualità principale del film, quella che permette a Iwaisawa di raccontare con successo una storia tanto semplice quanto profonda. Il regista riesce a creare cioè, in parallelo a quello che si percepisce sfogliando il fumetto, un mondo scarno, depopolato, ma ricco di vuoti e di spazio lasciato per pensare e far volare la fantasia. Un mondo monotono e fatto di paesaggi provinciali senza nulla di speciale che coglie però un punto fondamentale del fare musica quando è, come nel caso dei tre protagonisti, fatta da dilettanti e senza altri fini che non sia sè stessa. Finita la visione resta così un senso di pace e di gioia, e non è poco di questi tempi.

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