Raffaello, studio per due soldati accovacciati, part., The Royal Collection / HM Queen Elizabeth II

 

Raffaello Sanzio moriva a Roma il 6 aprile di cinquecento anni fa. Quest’anno cade quindi il cinquecentenario, solennizzato con una grande mostra monografica (alle Scuderie del Quirinale fino al 30 agosto, a cura di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi, catalogo Skira). Era accaduto anche nel 1983 per i cinquecento anni dalla nascita dell’artista, e ha chiuso pochi mesi fa la grande esposizione del Louvre che commemorava il mezzo millennio dalla morte di Leonardo. Sembra di risentire gli ammonimenti di Haskell su quest’«imperativo morale» che sono le mostre celebrative dei centenari di nascite o morti, o i miei studenti, preoccupati di trovarsi tra le tracce dell’esame di Stato un tema su Raffaello: quest’artista, fulgido e regolare come nessun altro, il quale – seguendo Vasari – «fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà», li affascina così poco e non si può certo pretendere che nel poco tempo concesso cada completamente quel velo di luoghi comuni, o che si colga il senso profondo di una lingua che per essere così limpida, chiara e ‘popolare’ nasconde una meditatissima emulsione di stili e ricerca.
Poi è arrivato il Covid e le porte delle Scuderie, come delle scuole, come delle nostre case, si sono chiuse. La mostra è ora riaperta con visite contingentate e inevitabilmente brevi per i motivi sanitari che tutti conosciamo. Fatalmente, rischiando di minare il senso stesso di un percorso pensato per altri tempi, con snodi che richiedevano un certo tipo di riflessione. Perché l’esposizione è montata a partire dalla dipartita del grande artista. Un percorso a ritroso che inizia dal monumento funebre e arriva, sala dopo sala, fino all’inizio della carriera del Sanzio: come risalire un fiume dalla foce, con tutta la fatica che provoca una risalita controcorrente se non si è allenati, negli spazi non felici delle Scuderie.
Si inizia dalla tomba, quindi. Da un facsimile in scala 1:1 che fa un po’ Venezia a Las Vegas, finendo per assecondare le cattive abitudini e le pigrizie del pubblico: il monumento vero è al Pantheon, a meno di 15 minuti a piedi dalla Scuderie. La tomba è però significativa sotto diversi punti di vista e introduce i temi – questa volta non facili per un pubblico generico – che si dipanano nelle sale successive: soprattutto, il rapporto del Sanzio con l’antichità. Al cuore di questa esperienza che ha cambiato per sempre il modo di guardare alle disiecta membra dell’arte classica c’è la famosa lettera di Raffaello a Leone X. Una lettera dedicatoria che mette modernamente in campo la tutela attraverso un metodo scientifico, con lo studio della Roma antica attraverso il rilievo dei suoi resti. E l’idea, che si legge in queste sezioni iniziali, che l’antichità sia fonte continua di scoperte alle quali ci si può abbandonare insieme agli allievi e agli amici con una passione e una determinazione fortissime, nutrendosene per alimentare un costante processo di reinvenzione.
Ogni progetto diventa un esperimento a sé; ognuno di essi richiede un’immersione totale nella memoria dell’antico insieme a uno sguardo sul contemporaneo: nasce così una miscela pregna di richiami e di senso. Come nell’impostazione grafica della Battaglia di Ponte Milvio, in cui Raffaello mette a frutto gli studi sui rilievi dell’arco di Costantino, sui fregi della Colonna Traiana… e nella drammatizzazione dell’ultima opera che in mostra purtroppo non c’è – ma sarebbe stata un ottimo inizio –, la Trasfigurazione della Pinacoteca Vaticana, esposta nella camera ardente, «la quale opera – sempre Vasari –, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore».
Nel percorso a ritroso si ritrovano compagni di strada come Giovanni da Udine, a cui forse si devono gli strumenti musicali ai piedi della Santa Cecilia di Bologna, e, soprattutto, Giovan Francesco Penni e Giulio Romano. Con loro c’è una sintonia totale, tanto che per la critica è ancora ostico scindere le diverse mani in alcune opere uscite dall’officina raffaellesca. Mostra e catalogo fanno parzialmente ricorso a una «firma spirituale», cercando di appianare i dubbi con un’autografia «relativa», ma anche se l’invenzione è del Sanzio, l’esercizio attributivo non si può e deve fermare. Ci sono delle differenze, delle vibrazioni in alcuni casi infinitesimali che non si riesce a liquidare troppo facilmente: tra la Madonna del Divino Amore di Capodimonte e la Madonna della Rosa del Prado, per esempio, o all’interno della stessa opera, come nella Visitazione del Prado o, come si ribadisce più volte in catalogo ipotizzando delle soluzioni anche sulla base di analisi recenti, dentro la Sala di Costantino.
Il «principe de la sinagoga» – così Sebastiano del Piombo lo definiva, non senza una punta di sarcasmo – era a capo di una bottega a cui aspiravano, ricorda Vasari, «infiniti giovani che attendevano alla pittura, et emulando tra loro cercavano l’un l’altro avanzare nel disegno, per venire in grazia di Raffaello e guadagnarsi nome fra i popoli». Uno studio con garzoni e apprendisti, esperti e collaboratori, aperto e ramificato come quelli di Perugino, Verrocchio o Leonardo, che ha consentito a Raffaello, dal suo arrivo a Roma e dall’impegno delle Stanze vaticane in poi, un coinvolgimento in imprese sempre più vaste e complesse.
In mostra, dal secondo piano, sono montate delle sezioni dense, e una piccola galleria di ritratti: la Velata, la Fornarina – con accanto, poco più che una suggestione, una Venere accovacciata del I secolo –, il bellissimo Ragazzo della Thyssen-Bornemisza che lancia un’occhiata sfrontata a chi sguscia via perché i cinque minuti previsti in sala son scaduti e, più avanti, lo sguardo tutto diverso di Tommaso Inghirami e l’assorto Giulio II bagnato nelle acque della laguna, in un apice di passione per Giorgione, diversi dei disegni preparatori per le Stanze e qualche ragionamento sul tema della Madonna con il Bambino intorno alla Madonna d’Alba.
In queste sezioni sarebbe cascata a fagiolo una sosta davanti alla Madonna di Foligno, o alla Madonna Sistina, che apre anche i cassetti della memoria e il cuore dei non specialisti; come al Louvre qualche mese fa, quando alla mostra di Leonardo ci si poteva, faticosamente, avvicinare all’Uomo vitruviano. Non sono invece delle opere feticcio i tondi bronzei, realizzati da Cesarino Rossetti per la cappella Chigi alla Pace, esposti qui dopo il recente restauro e accanto a uno dei disegni approntati da Raffaello. Prima della bellissima mostra dell’anno scorso Raffaello e gli amici di Urbino non so quanti, anche tra gli storici dell’arte, li avessero davvero osservati all’Abbazia di Chiaravalle – e in pochi si sono chiesti che cosa ci facessero nel monastero milanese, così apparentemente fuori contesto. Si coglie, anche qua, la responsabilità del maestro in una bottega che mette in dialogo diverse specializzazioni: orafi, incisori, scultori, pittori, ricamatori, architetti… il disegno è la fonte, un giacimento d’invenzioni.
Prima di Roma ci sono anni contratti, pregni, difficili non solo da ricostruire ma anche da immaginare per i passi in avanti così repentini del giovane artista in formazione, tanto che il cammino a ritroso rischia di trasformarsi in un puzzle che si scompone. Dalla prima formazione a Urbino alle diverse fasi del rapporto con Perugino, poi Pinturicchio, la corsa a Firenze richiamato dal clamore per i lavori nel Salone dei Cinquecento, e il successivo lungo soggiorno in città dove il pittore studia moltissimo e ha continue sollecitazioni: si appoggia a una rete di committenti, amici, ammiratori che gli faranno aprire porte altrimenti chiuse, come quella dello studio di Michelangelo, restio a rivelare i lavori in corso… Di queste fasi in mostra si fa una sintesi, soprattutto attraverso i disegni, e alcuni accostamenti disegno-opera, cartone-opera che raccontano del processo creativo, ma si rischia d’arrivare alla fine del puzzle, appunto, con qualche pezzo mancante. Bisogna ricorrere alla memoria o cercare di colmare i buchi con il catalogo o con qualche visita altrove, ai Musei Vaticani, magari