Si apre per l’Italia, con questo 2019, una bella tripletta di ricorrenze ‘in morte’: Leonardo quest’anno, Raffaello nel 2020, Dante nel 2021. Rituali, per dirla con Carlo Dionisotti, di quella «religione laica, democratica, nazionalistica e storicistica» affermatasi nel corso dell’Ottocento, le cerimonie centenarie hanno spesso offerto negli ultimi due secoli un’ottima postazione da cui verificare lo stato di salute della disciplina storico-artistica. Lo esemplifica bene la vicenda di Raffaello (1483-1520), caposaldo figurativo della civiltà europea. Fu così nel 1883, quando Crowe e Cavalcaselle davano alle stampe nella monografia a lui dedicata la summa della connoisseurship di tutto un secolo, mentre l’Italia post-unitaria celebrava goffamente l’artista a suon di parate, impelagata in problemi di centro e periferia (Roma vs Firenze e Urbino) e di Stato e Chiesa (con il papa serrato in Vaticano). Fu così nel 1983, l’annus mirabilis degli studi raffaelleschi, che portò in dono non solo la riscoperta dell’attività tarda del pittore messa al bando dall’Ottocento, ma anche l’avvio da parte di John Shearman dell’importante raccolta documentaria Raphael in Early Modern Sources, uscita postuma nel 2003.
È difficile immaginare quello che succederà nel centenario del 2020, ma è auspicabile che, per affrontare i tanti aspetti ancora problematici della produzione raffaellesca, l’occasione possa sollecitare soprattutto un confronto tra approcci (di critica letteraria e di filologia visiva) e competenze (storiche, diagnostiche e di restauro) diversi. Lo lascia già sperare l’attenzione rivolta al problema metodologico nella Premessa scritta da Barbara Agosti e Silvia Ginzburg al volume Raffaello a Roma Restauri e ricerche, da loro co-curato insieme ad Antonio Paolucci (Edizioni Musei Vaticani, pp. 432, euro 59,00). Concepito a partire da un convegno tenutosi a Roma nel 2014, il libro accoglie otto contributi di taglio diverso, che spaziano dalla ricapitolazione delle attuali prospettive di ricerca dopo il fatidico 1983 (Sylvia Ferino-Pagden) all’analisi approfondita degli interventi seicenteschi di tutela condotti nelle Stanze vaticane da Carlo Maratti (Michela di Macco), sempre puntando l’attenzione sulle opere realizzate dall’Urbinate a Roma, dal 1508 alla morte.
A costituire, oltre ai limiti cronologici, il vero Leitmotiv dei saggi è però soprattutto il tema del delicato rapporto tra tecnica e stile nell’opera raffaellesca: un rapporto straordinariamente scivoloso da mettere a fuoco, soprattutto quando sotto analisi sono gli ultimi anni di attività dell’artista e il problema dello stile e della qualità dell’opera rischiano di tramutarsi continuamente in un problema di autografia, come nel caso della Petite Sainte Famille del Louvre (Vittoria Romani), o di coralità di voci nell’esecuzione. Antiporta del Manierismo, la bottega di Raffaello affiora come co-protagonista in diversi saggi del volume, dove per sbrogliare la matassa si tenta la via del dato diagnostico, ottenendo non pochi risultati: dalle prove del costante controllo del maestro su tutte le fasi operative (Ana González Mozo, Museo del Prado), alla dimostrazione dell’assenza da un’opera raffaellesca all’altra di un procedimento di lavoro codificato (Angela Cerasuolo, Museo di Capodimonte).
Ed è proprio questa gestione sperimentale, curiosa e libera della tecnica da parte dell’Urbinate, che rappresenta, credo, uno dei punti più rilevanti a cui approdano concordemente tutti gli autori coinvolti. Se solo si pensa che nel 1920, in occasione del quarto centenario in morte, Ugo Ojetti dalle colonne del Corriere della Sera affermava la necessità per gli artisti di una nuova «disciplina» e proponeva il nome del Sanzio quale garante per un moderno decalogo a loro uso, è senz’altro significativo sottolineare come, anche grazie a questo volume, l’immagine che prevarrà nel 2020 non sarà certamente quella di un Raffaello ‘delle regole e della teoria’, quanto piuttosto di un pittore tanto intelligente da un punto di vista progettuale, quanto antiaccademico nella prassi: un pittore, che vede nella tecnica uno strumento duttile straordinario per risolvere problemi espressivi, e mai un protocollo prestabilito; che riesce costantemente a trarre insegnamento dalla propria esperienza, tanto quanto a prestare attenzione al linguaggio degli altri, che siano Michelangelo, Leonardo o i veneti (Alessandro Ballarin); che ama il colore così come ama il disegno; che è disposto a mettere in gioco continuamente le nozioni già apprese pur di far evolvere il proprio stile, compiendo talvolta veri affondi di genio.
Conferma questo ritratto l’atlante preziosissimo che completa il volume, dove si offrono al lettore non solo immagini di opere intere su supporti mobili e affreschi, ma anche moltissime illustrazioni di dettagli e disegni, foto a luce radente, radiografie e riflettografie, e soprattutto gli scatti realizzati da Paolo Violini nel corso del recente restauro da lui condotto nelle Stanze vaticane. Un materiale, quest’ultimo, completamente inedito e mozzafiato, arricchito anche dai grafici che illustrano le giornate nella Stanza di Eliodoro e della Segnatura e provano, in quest’ultima, la presenza contemporanea al lavoro di Sodoma e Raffaello.
La generosa ricchezza dell’atlante (insieme ai saggi dello stesso Violini e di Arnold Nesselrath, sotto la cui direzione è stato condotto il restauro) permette di osservare passo dopo passo come l’artista in questi due ambienti vaticani lasciò il tratteggio incrociato di tradizione umbro-toscana per approdare alle pennellate a corpo, finendo addirittura per trasformarsi in un pittore di ‘macchia’ e di tocco cromatico; o come s’inventò di aggiungere velature di calce su un affresco, per fingere pittoricamente l’aria umida della notte. Permette di prendere confidenza con la grande scioltezza del pittore e con la sua fine ironia: Raffaello gioca con la luce di finestre vere e dipinte; improvvisa un rapido make-up a secco su un volto, per rimediare ai danni di un pennello caduto; lascia impronte dei palmi delle mani e impara, strada facendo, a mescolare la pozzolana con la calce; ma soprattutto, spesso ci ripensa e interviene a cose fatte, se occorre anche aggiungendo una nuova stesura di intonaco, pur di raggiungere il controllo formale desiderato. In altri termini, permette ancora, cinque secoli dopo la morte dell’artista, di salire sui ponteggi insieme con lui, mentre è al lavoro, e di apprezzare, come già avevano fatto i suoi contemporanei, tutta la sua divina sprezzatura.