«Morse Raffaello da Urbino pittore eccellente et architetto della chiesa de San Pietro (…) dolse la morte sua precipue alli litterati, per non aver potuto fornire la descrittione e pittura di Roma antica che ‘l faceva, che era cosa bellissima, pro perfettione della quale haveva ottenuto un breve del Papa, che niuno potesse cavare in Roma, che non lo facesse intravenire». Così Marcantonio Michiel annotava nel suo diario la notizia della morte di Raffaello (1520): nessuna menzione degli affreschi della Sala di Costantino in Vaticano, ai quali egli aveva appena fatto in tempo a mettere mano, e che sarebbero stati realizzati dai suoi allievi; e in fondo poco rammarico anche per il mancato completamento, secondo il suo progetto, della nuova basilica di San Pietro. Ma ogni spirito colto, secondo Michiel, lamentava che un’altra impresa di Raffaello non fosse stata terminata, quella «descrittione e pittura di Roma antica», alla quale anche Paolo Giovio, pochi anni dopo, avrebbe attribuito grande importanza. Di quell’impresa che aveva suscitato grande clamore ci rimane poco o nulla, e già nel 1550 anche Vasari non la menzionava affatto nelle Vite. Eppure Raffaello, che a differenza di Michelangelo e soprattutto di Leonardo non era solito scrivere e discettare del proprio mestiere d’artista, quell’impresa l’aveva descritta, in un testo ambizioso, rimasto anch’esso però incompiuto. Si trattava di una lettera, forse mai recapitata al suo destinatario.
Per molti lettori, certamente, non è un mistero che si stia qui parlando della Lettera a Leone X, un testo che dal Settecento fino a oggi è stato analizzato più e più volte, ma che in questi ultimi anni è divenuto oggetto di un’attenzione quasi ossessiva. Alla mostra delle Scuderie del Quirinale del 2020 la Lettera stessa è assurta al rango di opera d’arte: un esemplare manoscritto dell’Archivio di Stato di Mantova vi era infatti esposto per intero, in ossequio a un gusto un po’ feticistico del documento, in quella che era però forse la sezione più interessante della rassegna. A curarla era Francesco Paolo Di Teodoro, che alla Lettera aveva già dedicato numerosi studi e una monografia. In occasione del centenario della morte di Raffaello, nel complesso di Capo di Bove all’Appia Antica, si era pure tenuta una mostra (a cura di Ilaria Sgarbozza) sulla fortuna critica ottocentesca della Lettera. In quello stesso 2020 usciva, sempre a firma di Di Teodoro, la trascrizione dei due più importanti testimoni manoscritti della Lettera, preceduta da un’approfondita disamina; è seguita poi un’edizione critica del testo, ancora a cura di Di Teodoro, pubblicata lo scorso anno. E si giunge così al recentissimo Raffaello tra gli sterpi Le rovine di Roma e le origini della tutela di Salvatore Settis e Giulia Ammannati (Skira, pp. 260, e 28,00), con il quale forse si placherà per un poco l’acribia critica.
Perché tanto interesse? Il punto interrogativo fa eco agli oltre quaranta che si incontrano nell’avvincente saggio di Settis, a partire dall’incipit: «La celebre Lettera a Leone X (di Raffaello? di Baldassarre Castiglione? di entrambi?) è fra i testi più citati del primo Cinquecento…». Su questo primo nodo, la posizione di Settis è in realtà netta, e infatti il nome del Castiglione non c’è nel titolo del libro: si risponde così alla tesi un po’ azzardata che Amedeo Quondam aveva avanzato, di nuovo, sempre, nel fatidico 2020 (e articolata poi in un libro dell’anno scorso), quella secondo cui sarebbe stato il solo Castiglione a concepire e scrivere la Lettera, consultandosi appena con l’amico artista, che sarebbe però stato il firmatario della missiva. Al grande umanista era stato riferito il testo quando era stato dato alle stampe per la prima volta nel 1733, ed è certo scritto di suo pugno il manoscritto a cui si è già accennato, quello esposto nel 2020. Ma non possono esserci molti dubbi sul fatto che il progetto di misurare le rovine degli edifici antichi di Roma, per arrivare a produrre una pianta della città imperiale, fosse del solo Raffaello, e che l’amico lo avesse aiutato a stilare il testo in un eloquio degno del suo destinatario. Colui che nella missiva parla in prima persona non può che essere Raffaello, e solo lui (e forse neanche lui?) aveva le competenze tecniche necessarie a quel progetto.
Rispetto agli studi precedenti, il presente volume si discosta per offrire quella che viene presentata come la prima edizione «genetica» e «sinottica» della Lettera. Tra i testimoni di questo documento, un posto importante è occupato infatti da un manoscritto oggi a Monaco, probabilmente una revisione, voluta da Raffaello, della precedente bozza che era stata preparata dallo stesso artista con accanto Castiglione: invece che presentare le versioni della Lettera una di seguito all’altra, nella seconda parte del libro Giulia Ammannati ha cercato di ricostruire la genesi del testo, procedendo con una trascrizione integrata dei testimoni più importanti, con l’ambizione di recuperare quasi dal vivo, grazie anche all’analisi parallela di Settis, il dialogo tra Raffaello e Castiglione. Non è facilissimo per il lettore, a dire la verità, orientarsi in questa finissima operazione, dalla quale, secondo le conclusioni qui presentate, si riconfermerebbe la piena responsabilità intellettuale di Raffaello dell’intero testo, in quella che rimase l’ultima versione (Monaco). Non tutta la critica è stata sempre d’accordo su questo punto, e nell’analisi di Settis rimane un po’ in ombra il possibile ruolo giocato nell’impresa da Antonio da Sangallo il Giovane. Nella Lettera si legge: «E perché el modo del dissegnar che più si apartiene allo architecto è differente da quel del pictore, dirò qual mi pare conveniente per intendere tutte le misure et saper trovare tutti li membri delli edifici senza errore». Su questa distinzione tra il disegno degli architetti (il rilievo ortogonale) e quello dei pittori (la prospettiva) Raffaello, con i suoi interlocutori, si interrogò a lungo: lo attestano ripensamenti e riscritture. Già da tempo, quindi, era stato ipotizzato che il Sangallo, accanto a Raffaello nell’impresa del nuovo San Pietro (e Settis legge bene tutta la genesi della Lettera in rapporto alla storia di quel cantiere, mettendo in luce anche un’altra figura chiave, quella di fra Giocondo), avesse lui, architetto di formazione, stimolato Raffaello ad abbandonare il disegno prospettico in favore di quello architettonico. Viscogliosi ha poi dimostrato come proprio Sangallo, contemporaneamente a Peruzzi, producesse per primo delle piante del Foro di Roma del tutto coerenti al metodo di rilevazione descritto nella Lettera, laddove Raffaello, pittore prima che architetto, rimase sempre più incline alle vedute prospettiche: si veda ad esempio il disegno dell’interno del Pantheon.
Ma solo Raffaello poteva pensare di scrivere al papa criticando i suoi predecessori, che avevano abbandonato la città al suo degrado. Su quel brano sensazionale Settis mette acutamente l’accento, tratteggiando poi magistralmente da par suo una storia della tutela ante litteram del patrimonio antico romano, a partire addirittura dal 1162. E qui è forse il contributo più illuminante di Raffaello fra gli sterpi. Settis, con grande sottigliezza, decostruisce il mito di Raffaello primo commissario alle antichità, ma contemporaneamente lo ribadisce. Ovvero: il breve dell’agosto 1515 con il quale Leone X nominava Raffaello praefectus alle antichità romane non era un atto di tutela del patrimonio archeologico, poiché al contrario conferiva all’Urbinate l’incarico di recuperare marmi da impiegare nella Fabbrica di San Pietro. Ma se già Michiel vedeva un rapporto tra «la descrittione e pittura di Roma antica» di Raffaello e il breve del papa «che niuno potesse cavare in Roma», questo significa che una nuova coscienza della tutela stava crescendo, e proprio grazie a Raffaello, che qualche anno dopo il suddetto breve aveva in animo di sollecitare Leone X a un atteggiamento nuovo. E così si spiega perché Bottari, pubblicando per primo nel 1768 quel breve, traduceva praefectus con «Soprintendente»: era una forzatura, sì, ma non era una lettura del tutto infondata di quel documento.