Sono infinite le tradizioni – e, per esteso, le narrazioni – che hanno contribuito a rendere pervasivo il mito di Raffaello Sanzio. Era dunque inevitabile che uno dei maestri dell’arte di tutti tempi venisse omaggiato, in occasione delle celebrazioni del quinto centenario dalla morte, con eventi espositivi in qualche modo centrati sulla sua leggenda. La divinizzazione dell’Urbinate, manifestatasi già all’indomani della prematura scomparsa dell’artista (1520), aveva funzionato da incipit per la recente grande mostra raffaellaesca. Sul culto di Raffaello e, specificamente, sull’influenza che l’artefice della Scuola di Atene ha avuto nella didattica artistica, si sofferma anche la più contenuta, ma non meno meditata e interessante, mostra Raffaello L’Accademia di San Luca e il mito dell’Urbinate (fino al 30 gennaio) a cura di Francesco Moschini, segretario generale della San Luca, e di Valeria Rotili e Stefania Ventra, due giovani studiose specialiste della cultura artistica maturata nell’Urbe tra Sei e Settecento.
L’esposizione si svolge presso Palazzo Carpegna, odierna sede dell’Accademia di San Luca, un luogo non casuale perché proprio all’interno di quella che è stata la massima istituzione romana d’età moderna preposta alla formazione, e anche alla promozione sociale, degli artisti, sono state elaborate le fondamenta teoriche per la canonizzazione, e la diffusione, del modello raffaellesco nelle scuole d’arte europee. L’Accademia di San Luca, da sempre in contatto con artisti provenienti da ogni dove – si pensi ai molteplici rapporti intrattenuti con i pensionnaires dell’Accademia di Francia e con la composita cerchia dei Lukasbrüder tedeschi – è stata infatti cruciale per la propagazione Oltralpe di un’estetica mutuata dallo studio selettivo delle opere dell’Urbinate.
L’interazione dei maestri accademici e dei loro allievi con il lascito del Sanzio è raccontata attraverso un allestimento essenziale, che rispecchia bene il rigoroso impianto concettuale alla base dell’esposizione. Ogni singola opera risulta ben calibrata all’interno di un discorso limpido ma che, tuttavia, non rinuncia ad addentrarsi in problemi della critica raffaellesca ancora aperti. Tale predisposizione alla ricerca si riflette nella struttura del catalogo, composto non da saggi veri e propri, bensì da dense ed erudite schede che fanno luce sulla storia critica di manufatti di grande qualità (dipinti, stampe, disegni) rimasti a lungo confinati nei depositi.
La via maestra per la legittimazione dell’ideale classico-raffaellesco passò attraverso l’esercizio della copia dei maggiori capolavori dell’Urbinate. Gli artisti membri dell’Accademia di San Luca, tuttavia, non si rifecero in via esclusiva alle composizioni «ufficiali» del Sanzio (le Logge e le Stanze Vaticane). Con l’avanzare della temperie romantica furono le trasognate acerbità del giovane Raffaello a incontrare sempre maggior fortuna.
In questo senso si rivela di notevole interesse un piccolo dipinto di Antonio Bianchini, personaggio noto ai più come redattore del manifesto del Purismo (1842) ma qui presentato nell’inedita veste di pittore: la tenue affettazione della sua Vergine con bambino – realizzata nel 1878, in un’epoca cioè di totale entusiasmo per i «primitivi» – appare sorprendentemente prossima alle manierate ingenuità preraffaellite del primo Dante Gabriel Rossetti.
La venerazione per Raffaello, tramandata dai maestri accademici a intere generazioni di allievi, fu totalizzante e rasentò l’idolatria. Non si trattò di un semplice confronto imposto nelle esercitazioni didattiche, ma di un vero proprio legame mistico-religioso stabilito con colui che finì per essere identificato come nume tutelare dell’Accademia. Indizio eloquente dell’esaltazione fanatica, e della feticizzazione, messa in atto dalle autorità della San Luca tanto sulla memoria quanto sul corpo del Sanzio è rappresentato dal disegno, eseguito da Tommaso Minardi nel 1833, del teschio dell’Urbinate, una reliquia – poi dimostratasi falsa – che l’Accademia conservava gelosamente e che, per fini propiziatori, gli aspiranti artisti erano soliti toccare con la punta della matita o del pennello.
Nell’ideale altare del tempio raffaellesco innalzato dall’Accademia trovò un posto privilegiato la controversa pala raffigurante San Luca che dipinge la Vergine alla presenza di Raffaello. L’opera, nel corso dei secoli, è stata oggetto di invasivi interventi di restauro che ne hanno irrimediabilmente alterato la facies. A causa delle precarie condizioni conservative è dunque impossibile avanzare una ipotesi attributiva certa; la paternità dell’Urbinate sarebbe dubbia, specie se si considera la singolare e intellettualistica iconografia del dipinto, troppo tesa a esaltare la genealogia «santa» e «raffaellesca» della Congregazione. La pala, in ogni caso, divenne presto il simbolo dell’Accademia e, a scopo propagandistico, venne replicata sia per mezzo calcografico sia in pittura, si veda la copia – opportunamente esposta in mostra accanto all’originale – realizzata nel 1623 da Antiveduto Gramatica.
Nelle collezioni dell’Accademia è poi presente un’altra icona, ancora di problematica autografia raffaellesca, che ha contribuito a connotare l’identità dell’Istituzione. Si tratta del cosiddetto Putto reggifestone, un lacerto di affresco, di data incerta, collegabile a uno dei putti dipinti da Raffaello ai lati del Sant’Isaia nella chiesa di Sant’Agostino a Roma (1513 circa). Rifuggiendo da pretese soluzioni definitive, i curatori della mostra hanno preferito discutere dell’opera partendo da nuove indagini diagnostiche e valorizzando le numerose riproduzioni che di essa sono state fatte tra XIX e XX secolo. Il Putto reggifestone, fino al 1834 appartenuto al pittore Jean-Baptiste Wicar, ha esercitato un’influenza enorme sugli artisti sia interni che esterni all’Accademia di San Luca. Era infatti ovvio che la traccia di un affresco riferito all’Urbinate, visionabile senza troppe difficoltà a una distanza ravvicinata, destasse tanta ammirazione.
Non se lo fece scappare Gustave Moreau, giunto a Roma nel 1857 alla scoperta del Rinascimento. La copia dell’artista francese, straordinariamente esposta in mostra in dialogo con l’originale, fu del tutto conforme al modello raffaellesco. Tuttavia, il putto di Moreau appare agitato da vaghi sentori simbolisti; nel suo sguardo sembra affiorare l’inquietudine di chi è condannato a fare i conti con il fantasma di un maestro che, da tempo immemore, si aggirava nelle accademie d’arte di tutta Europa.