Nella «Fiera Letteraria» del novembre 1953, per la rubrica Un libro alla settimana, Carlo Bo recensì Il trovatore di Raffaele Carrieri che da poco aveva ricevuto il premio Viareggio. Apparentata dal critico ligure alle Poesie di Filippo de Pisis, la lirica di Carrieri non può essere «depositata sulla parte eterna della memoria» e deve quindi «tradirsi in un impeto sentimentale, in una frase, in una parola unica». Questo «giuoco della spontaneità» sorge dal «fissare giorno per giorno, momento per momento le impressioni, una forma ideale di diario sentimentale».

Nato a Taranto nel 1905, Carrieri trascorre un’adolescenza avventurosa almeno quanto quella di Huckleberry Finn. Insofferente verso l’ambiente pugliese, tredicenne s’imbarca per l’Albania e negli ultimi metri la raggiunge byronianamente a nuoto. Camminatore indefesso à la Robert Walser, arriva in Montenegro a piedi e divide le sue giornate con un gruppo di pastori, tra notti all’addiaccio e insostenibili scarpinate. Nel ’20 lo troviamo con D’Annunzio nell’impresa di Fiume: durante gli scontri del Natale di sangue, è ferito alla mano sinistra. Successivamente si stabilisce a Palermo, dove lavora alla dogana come gabelliere (da questa esperienza trarrà Il lamento del gabelliere, con prefazione di Bo, 1945) e s’inoltra nella costa africana in qualità di marinaio. Nel ’23 è alla volta di Parigi: qui posa, stipendiato, per Picasso ed entra a pieno titolo nella vita scalmanata degli intellettuali d’oltralpe. «Fa da modello ai pittori – scrive Antonio Lucio Giannone nell’introduzione a Fame a Montparnasse, un testo di ricordi parigini del ’32 recentemente riproposto da Musicaos Editore –, lo sguattero in un ristorante, lo scaricatore al mercato ortofrutticolo, il mozzo su un battello e il venditore di tappeti». In pratica, quello che in America è chiamato jack of all trades. In uno dei diciannove mémoires plasmati sulle Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger, Carrieri racconta con nostalgia: «I tram, lontani, sembrano giocattoli abbandonati su letti troppo grandi. Parigi non esiste più; si è sciolta nell’aria come un immenso bucato. Vorrei stendermi su questo candore e dormire. Dormire lungamente come quando all’Ospedale della Carità, le suore accendevano le lampade e pregavano Gesù». Dal 1930 risiede a Milano: si sposa con Ida D’Agostini, da cui avrà due figli, e svolge l’occupazione di critico d’arte e di collaboratore del Corriere della Sera, nonché di altre testate (Il Tempo, «Epoca», Milano sera).

Se l’esordio tout court di Carrieri – scrittore assai prolifico, si contano oltre cinquanta volumi di saggistica e narrativa – è Scoperta di Eva (1930), il mestiere di poeta comincia soltanto con gli anni quaranta. Un’attività per nulla «marginale», anzi la vera «prediletta» dal tarantino, come osserva Bo nel già menzionato articolo. Un doppio limpido zero Poesie scelte 1945-1980 (a cura di Stefano Modeo, Interno Poesia Editore, pp. 304, € 18,00) è dunque un libro importante per penetrare nell’officina letteraria di Carrieri e riscoprirne i motivi, le ambizioni. Non si tratta della prima antologia in assoluto: al ’70 risale Stellacuore, un florilegio allestito dall’autore stesso, e del ’76 sono le Poesie scelte, a cura di Giuliano Gramigna, entrambe uscite per Mondadori, ma prive «di due importanti raccolte, Fughe provvisorie (1978) e La ricchezza del niente (1980), le quali chiudono la produzione ed esprimono l’ultima fase della vita del poeta». Un doppio limpido zero, orlato di una densa nota filologica, contiene testi che vanno da Il lamento del gabelliere a Souvenir caporal (1946), da La giornata è finita (’63) a Le ombre dispettose (’74); in tutto le opere prese in considerazione sono undici.

«È interessante conoscere la biografia di Carrieri – nota Modeo nell’introduzione – per comprendere quanto la fuga, l’allontanamento, l’instancabile nomadismo geografico, intellettuale, artistico si manifestino nella sua poesia. È infatti a partire da questo essere fuggiasco che in Carrieri si palesa uno straordinario trasformismo, una capacità d’indossare maschere che ingannano e disorientano chiunque voglia, a livello critico, incastrarlo in una definizione». Dalla ghiaia compatta dei versi – è preferita la forma breve, l’assetto sillabico spesso non supera il settenario – emergono con evidenza modelli quali Apollinaire, Eluard, Esenin, Cendrars, Ungaretti ma soprattutto Federico García Lorca, a cui è dedicato un commosso componimento. Specialmente dagli anni cinquanta in poi si addensa il contatto con la lirica monodica greca (Archiloco, Ipponatte, Anacreonte) e gli epigrammatisti dell’Antologia Palatina, anche per la loro tendenza alla sentenziosità.

Secondo Gramigna, «ciclicità e continuo straniamento» contraddistinguono i percorsi tematici di Carrieri che fa dello schlemihl, dell’outsider, dello sradicato il protagonista della sua poesia. Lo sguardo languido e décandent sul reale, l’indigenza (effettiva e psicologica) sono sinonimo di una precisa condizione esistenziale, quasi manieristicamente ricercata: «Povertà compagna mia, / purezza pidocchio demenza / illimitata parvenza / di Gesù in ogni via. / Gesù tra pietra e pane / Gesù tra bene e male / la tua sola presenza / mi tiene compagnia» (Povertà compagna mia). Assieme a una sincera religiosità risaltano la celebrazione del paesaggio brullo («Il cielo più vecchio / è di questa capra / che bruca il tufo / e la luce coglie / sulle corna / come fa l’ulivo / con le foglie. Non si attende / che il diluvio», Tavoliere), il rapporto con la madre Maria Immacolata – che lo seguì a Milano e visse con lui fino alla morte –, l’amore per una fanciulla di nome Sara, abile nel moltiplicare simboli e vibranti atmosfere esotiche («Quale giuoco interrotto ripresi? / I millenni divennero specchi / inganni e begli sguardi. / Sposai Sara con la vista. / I neri capelli furono miei / e il gelsomino dei seni», Sera d’Africa).

Agente sanatore è sempre la rimembranza autobiografica che raggiunge gli esiti più alti nel Canzoniere amoroso (1958) con Calepino di Parigi, una summa delle avventure d’avant-guarde («Ho meno di vent’anni / e sono appena arrivato al Luxor / con l’animo pulito / come un fazzoletto nuovo»). La solitudine, la difficoltà di comunicare («Il chiuso voglio aprire / in ogni luogo persona cosa: / il chiuso che sta in me, in te», Gli occhi voglio aprire), spesso miniate in analogie volutamente irrazionali, lasciano tralucere la vocazione elzevirista di Carrieri (tipo Emilio Cecchi), fatta di preziosismi e sensazioni spleniche, dribbling impressionistici e turbamenti spirituali. A tal proposito, significativa è Poi verrà la pace, compresa in La ricchezza del niente, che testimonia l’anelito a un porto interiore definitivo: «Poi verrà la pace, la pace. / Avrò prati sulle guance / come fazzoletti / ricamati a spighe. / La voce fuggita altrove / smetterà di seminare: / non ci saranno parole / d’amore da ricordare».

Personificazione del poeta – per effetto dell’insonnia e non solo – è la civetta, animale bifido dell’oscurità e della saggezza, scalognato e alternativamente fausto. Gli occhi, il canto della civetta sono così il segno dell’infinito della poesia, un diario sentimentale che si spinge nei territori aurei dell’ignoto: «Civetta, quando tu canti / quando batti sul mio cuore / l’antico mesto richiamo, / quando intrecci sul mio cuore / il primo al secondo anello / come un doppio limpido zero, / quando dai cieli morti / al silenzio vedova torni / nel breve giro di un suono / leghi la mia alla tua notte».