Andare a caccia di fantasmi è l’obiettivo di Raed Andoni e del suo «cast» nel film che ha vinto il premio al miglior documentario originale alla Berlinale 2017: Ghost Hunting, che parteciperà in concorso anche a Cinéma du Rèel di Parigi. I fantasmi sono quelli del passato che accomuna il regista ai suoi personaggi e collaboratori, che si ritrovano a Ramallah per dare forma e nuova vita alla loro esperienza più buia: la detenzione nel centro per interrogatori israeliano Al-Moskobiya. Per Andoni – al suo secondo lungometraggio dopo Fix me, del 2009 – è un’esperienza che risale a 30 anni fa, quando appena diciottenne è stato arrestato e detenuto: un trauma che ha deciso di rielaborare proprio con questo documentario che intreccia finzione e realtà, ciò che è accaduto al regista e a tutti i protagonisti con la sua ricostruzione e messa in scena. In una delle prime sequenze vediamo l’alter ego di Andoni fare il provino a coloro che hanno risposto al suo annuncio, in cui cercava ex detenuti delle prigioni israeliane. Inizialmente tutti vogliono vestire i panni del carnefice, ma col progredire del film i ruoli si sovrappongono e si scambiano, accompagnati dal riemergere doloroso e incontrollabile dei ricordi. Parallelamente gli scenografi danno forma al luogo intorno al quale ruota l’intero film: la prigione con le sue celle buie, le stanze per gli interrogatori e i disegni sui muri fatti da chi cercava di evadere almeno col pensiero. «È proprio questo il senso dell’arte – osserva Andoni, che incontriamo insieme all’aiuto regista Wadee Hanani – trasferire l’ immateriale su qualcosa che può essere visto, toccato. In questo modo è possibile trasformare un ricordo doloroso in qualcosa di diverso».

Come è nato il progetto di Ghost Hunting?

Raed Andoni: È cresciuto dentro di me sin  da quando sono stato prigioniero a Moskobiya. Ho sempre pensato che sarebbe arrivato il momento giusto, in cui avrei avuto abbastanza coraggio per affrontare l’argomento. È stata d’aiuto la psicanalisi fatta per il mio film precedente, Fix Me, che mi ha fatto sentire sicuro abbastanza da affrontare quel trauma.

Il film si svolge su più livelli tra finzione e realtà.

RA: Ho capito molto presto che la finzione non rifletteva abbastanza ciò che volevo raccontare, specialmente dal momento in cui ho iniziato a incontrare delle vere persone, con le loro emozioni e ricordi. Quindi ho deciso di girare un documentario che avesse al suo interno delle sequenze di fiction. Dovevo però fare in modo che il pubblico riuscisse a seguire il passaggio continuo tra una dimensione e l’altra. Così ho stabilito una «grammatica» che aiutasse nel processo: la scena del casting o il trucco che viene applicato ai protagonisti quando si passa dalla realtà alla simulazione.

Il film sembra aver avuto un effetto catartico per lei e per tutte le persone coinvolte.

RA: La prima cosa fatta dalle migliaia di palestinesi che erano stati detenuti, nel momento in cui l’esercito israeliano ha lasciato città come Ramallah o Nablus, è stata proprio andare a vedere le prigioni in cui li avevano rinchiusi. Sono stato in un centro per interrogatori molto a lungo, ma per tutto il tempo avevo il volto coperto e non vedevo nulla intorno a me. È un’esperienza che ha continuato a perseguitarmi, e per me era fondamentale riuscire finalmente a vedere la prigione.

Un personaggio dice che il tempo all’interno del carcere scorre in modo diverso da quello della vita.

Wadee Hanani: Nel centro per gli interrogatori non penetra la luce del sole, non si mangia con orari fissi, non c’è nulla di regolare. Tutte le abitudini della vita vengono infrante: specialmente la presenza della luce, ma anche i suoni quasi non esistono. Il senso del tempo è necessario per organizzare la propria giornata, mentre lì il tempo è morto. Le stesse giornate si confondono tra di loro e si sprofonda talmente tanto dentro se stessi che inizia a emergere un nuovo tempo della vita – l’unico che ti è concesso – in cui per sopravvivere devi riuscire a costruire il tuo paradiso interiore.

Come ha lavorato con i suoi «personaggi»? 

RA: Sin dal primo giorno di riprese ho comunicato loro che avevano il diritto di lasciare quando volevano. Erano anche liberi di scegliere i loro ruoli nelle ricostruzioni e non erano mai tenuti a fare qualcosa che non desiderassero fare. Credo fosse molto importante lasciare loro questa libertà per non farli sentire come se fossero di nuovo in prigione e perché sentissero di stare creando qualcosa.

Inizialmente tutti vogliono interpretare i carcerieri.

RA: Chiunque sia stato in prigione vuole identificarsi col suo aguzzino. Ma per me andare in cerca di questi ricordi non significava trasfigurarli, ricostruirli in modo diverso: sarebbe l’equivalente di essere di nuovo prigionieri. Si tratta piuttosto di rimettere in gioco la memoria, vederla da nuovi punti di vista. Ricostruire i ricordi permette proprio di metterli in prospettiva. Penso che anche le sequenze di finzione facessero parte del doc vero e proprio: si tratta di persone che sono realmente state in prigione, e la moltitudine di livelli del film deriva proprio da questo. Se si trattasse solamente di attori, per quanto bravi, sarebbe un’altra cosa.

Con la legalizzazione di molti insediamenti da parte del parlamento israeliano la situazione in Palestina sembra ulteriormente peggiorata…

RA: Ciò che mi spaventa è vedere le persone senza speranza. Non riesco a essere ottimista in nessun modo, siamo in una situazione bloccata. I palestinesi sentono che il mondo intero si sta prendendo gioco di loro con la questione degli accordi di pace: ci viene chiesto di sederci e parlare con i nostri carcerieri mentre ancora siamo in prigione. Ma come può si può negoziare con una simile disparità?