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Sergej Lebedev, radiografia della stasi in cui è nato il putinismo

Sergej Lebedev, radiografia della stasi  in cui è nato il putinismoGrisha Bruskin da «Icone sovietiche», Saatchi Gallery, 2014

Scrittori russi Infiltrato dall’affabulazione del narratore, che conquista chi legge con castelli in aria di deduzioni e inferenze, «Gente d’agosto», di Sergej Lebedev, è un giallo dove il delitto da svelare è la stessa storia della Russia del ’900

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 giugno 2022

Un gatto senza un occhio combusto dagli scoppi, che in una tenda nell’ultimo avamposto russo in Cecenia viene spacciato per oracolo. Un altro gatto attraverso la cui memoria riviviamo la straziante nostalgia lirica per una donna morta in un attentato. Un mammut conservato per intero nel permafrost su una spiaggia glaciale. Sono smaglianti correlativi zoologici a scandire i paradossi del primo decennio postsovietico in Gente d’agosto (Ljudi avgusta) di Sergej Lebedev (tradotto da Rosa Mauro, Keller, pp. 335, € 18,50), impietosa radiografia della stasi ontologica della società che ha allevato il putinismo.

Tra le più acclamate giovani leve della letteratura russa, Lebedev sin dal romanzo d’esordio, Il confine dell’oblio (anch’esso tradotto in Italia da Keller), esplora gli strati irrisolti dell’inconscio collettivo e il trauma forzosamente evaso, senza ombra di damnatio memoriae, dell’orrore staliniano. Questa sua terza prova sposta l’asse cronologico nel cuore più drammatico della contemporaneità e si cimenta con un genere inconsueto e spigoloso come il giallo storico. Storico, tra l’altro, non per ambientazione, come i Fandorin raccontati da Boris Akunin, ma per tessitura, materia intrinseca: il delitto da svelare è la stessa storia della Russia di tutto il Novecento, sia nella sua interezza che in tante singole vicende di vittime senza nome o senza sepoltura.

Rancori e fraintendimenti

È proprio di questo che si occupa il narratore e protagonista, anche lui senza nome – spaesato eroe del nostro tempo – il quale, muovendo da un lacunoso manoscritto lasciato dalla nonna, inizia a cercare una chiave all’enigmatica figura del nonno mai da nessuno conosciuto. Viaggi, archivi, testimoni: nel momento in cui la sua quest personale si arena, insorge, non senza un pizzico di misticismo, un ispirato talento per la ricostruzione dei destini altrui, che nel far-west sregolato e fascinoso degli anni Novanta russi può con perfetta plausibilità trasformarsi in lavoro.

Con la gente d’agosto – i tanti entusiasti dell’apparente desovietizzazione dopo il fallito colpo di stato del 1991 – il narratore condivide l’illusione che «sarebbe bastata la verità sul passato e non avremmo ripetuto gli errori, la storia avrebbe imboccato una nuova strada». E così prende avvio, tra le steppe del Kazakhstan e gli impenetrabili boschi della Carelia, tra le radure glaciali e il Caucaso, graticola di rivalità etniche, una sequela di avventure via via colorite di suspense, enigma, inganno, popolate della varia umanità vagabonda e vagamente romantica di quegli anni di piratesca redistribuzione del patrimonio comune. Il romanzo corre su due binari paralleli: da un lato le vicende del protagonista e le sue cacce ai tesori biografici, che s’innestano sulle dinamiche sociali dell’ultimo decennio del secolo, con l’iniziale ebbrezza di libertà e segnali d’involuzione via via più gravi quando Eltsin ricorre ai carrarmati contro il parlamento nel 1993, in Cecenia l’anno dopo e viene rieletto in modo ben poco trasparente nel 1996.

Lo Zar del Cani

Per effetto delle riflessioni narratoriali e di carotaggi a ritroso sul passato sovietico viene però a definirsi anche una più ampia prospettiva storica, irta di rancore e fraintendimenti, del giubilo illusorio per essersi affrancati dall’eterna «vecchia puttana» dei servizi segreti e con fratture generazionali insanabili tra chi patisce per i boia impuniti e chi considera ancora colpevoli le vittime di un tempo. Emblematico più di tutti, quasi una rappresentazione en abyme dell’intera Russia postsovietica, l’episodio dello Zar dei Cani, un ex carceriere che nel folto della foresta rimette in sesto con nuovi schiavi un campo di lavoro forzato, coadiuvato solo da quadrupedi assassini.

La prosa di Lebedev è tutta filtrata dall’affabulazione del suo narratore, che aspira, riuscendoci, a conquistare il proprio lettore con castelli in aria di deduzioni e inferenze, a prova di autentica vocazione giallistica, e si fa gestore esclusivo di mezzi dialettici che attribuiamo a lungo al piano autoriale; salvo poi doverci, pian piano, rendere conto delle sue scorciatoie logiche e morali, della sua sempre più dubbia attendibilità, che si proietta, necessariamente, anche sull’intreccio, a tratti traballante, ma con la giustificazione in tasca.
Finisce, l’eroe del nostro tempo di disinganno, dritto dritto in bocca ai servizi che tanto aborriva e con l’alibi dell’amore vende senza batter ciglio l’uomo che gli aveva salvato la vita.

Allo stesso modo in cui brani di grande intensità espressiva – lo sterminio della muta di cani nello slancio stesso verso la preda – spiccano distintamente al di sopra dell’imbonitorio e un po’ ridondante almanaccare etico e storico, così un’intelaiatura molto più complessa si offre al solo lettore partecipe, rivelando come alla gente d’agosto tripudiante del 1991 faccia ormai da pendant un altro frutto della grafomania di stato, che costruisce a tavolino la storia e il 9 agosto 1999 tira fuori dal cappello un nuovo primo ministro: «L’uomo dal cognome telegrafico simile a uno pseudonimo che terminava in ‘in’ – come Lenin e Stalin –, proveniente dal kgb, era semplicemente stato il vice del sindaco di Pietroburgo, in pratica uno zero». E all’albo agostano prova a iscriversi con un ultimo guizzo d’autoinganno anche il protagonista che, ormai con le spalle al muro, immagina di condividere il destino di un esploratore polare, scomparso tra i ghiacci nell’agosto 1937, pochi giorni dopo la firma del decreto del terrore; ma salvo, nella leggenda, da qualche parte in Alaska.

Stragi nel proprio letto

Da giallo che si rispetti il romanzo si chiude con ben due colpi di scena. Sui quali il recensore, in pari ossequio al paradigma del genere, sarebbe tenuto a sorvolare, non fosse che il secondo, assommando con lieve cifratura storia (da noi pochissimo nota) e finzione, risulta in sostanza incomprensibile al lettore italiano, non supportato neppure dal paratesto editoriale. Non ci resta, quindi, che svelarlo, premettendo – perché gli irriducibili possano allontanarsi – un giudizio sulla traduzione di Rosa Mauro, di grande piglio, capace di riplasmare con sapiente libertà la sintassi in un italiano snello e coinvolgente, ma forse troppo radicale nell’approccio semplificatorio, rivolto, con una punta d’arroganza, sia a passi innegabilmente prolissi sia a parte del tessuto metaforico.

Alla penultima pagina, allora, il protagonista, dopo aver ignorato, a conferma della sua fallacia e inattendibilità, l’allarme di una testimone, salta in aria alla mezzanotte dell’8 settembre 1999 assieme al palazzo di via Gur’janov a Mosca.

È la seconda delle tre agghiaccianti stragi «nel proprio letto» che apriranno la strada alla nuova guerra di Cecenia e, sulla scia, all’elezione del «vendicatore» Putin. L’ovvio cui prodest, le allusioni di Lebedev e la cronaca dell’oggi lasciano pochi dubbi su chi fosse il vero responsabile. A proposito dell’ultima, ancora più sinistra, apocalittica pagina, abbraccio o promessa postuma di vendetta all’amata che, verosimilmente, l’ha a sua volta tradito e venduto, ci si deve limitare all’augurio che la finzione resti assolutamente tale.

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