L’ostracismo esibito contro Radio Radicale e contro il pluralismo mediatico evidentemente non paga. Deve averlo capito pure il sottosegretario pentastellato con delega all’Editoria, Vito Crimi, che ieri in Senato ha brigato a lungo con una parte dei suoi e con gli alleati di governo per mantenere la posizione intransigente di cui si era fatto baluardo. Ma poi, facendo onore al proprio incarico, ha aperto un sia pur «minimo e confuso spiraglio» (come l’ha definito la senatrice di Leu, Loredana De Petris), presentando una mozione insieme alla Lega (e soprattutto riformulandola in modo più favorevole a Radio Radicale, come chiesto dall’opposizione).

Il testo, che ha ottenuto 138 sì (Lega e M5S), 45 no (Pd) e 57 astensioni (Gruppo misto, FI, Autonomie e FdI), impegna il governo ad «attivare una separata convenzione triennale, volta esclusivamente a concludere l’attività di digitalizzazione e messa in sicurezza degli archivi», a patto che «l’archivio digitale resti formalmente vincolato al servizio pubblico». Nel frattempo l’esecutivo dovrà spendersi, secondo il documento, per una riforma complessiva del settore dell’informazione e della comunicazione istituzionale nell’ambito della quale si colloca la gara vinta nel 1994 dall’emittente radicale. (Nella prima versione, si stabiliva l’abolizione del divieto antitrust imposto alla Rai che impedisce l’ampliamento della rete radiofonica dedicata ai lavori parlamentari).

La riforma del settore era quanto vivamente caldeggiato dall’Agcom nella segnalazione urgente inviata al governo oltre un mese fa e ribadito proprio alla vigilia del voto al Senato dove erano state presentate, prima di quella M5S-Lega, cinque mozioni fotocopia firmate da Leu, dal Pd, da FdI e da FI, tutte volte ad ottenere una proroga della convenzione con il Mise fino a nuova gara. Su tutte però il governo ha dato parere negativo e così sono state affossate (a favore solo un centinaio di voti ciascuna), insieme alla promessa di Vito Crimi di trovare un «testo condiviso». Per farlo infatti bisognava seguire fino in fondo le raccomandazioni dell’Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni che chiedeva al governo di non interrompere il servizio pubblico garantito da 43 anni dalla radio di Marco Pannella e Massimo Bordin.

E invece ieri, durante le dichiarazioni di voto in Aula, la parola proibita tra i banchi della maggioranza era proprio «proroga». Vietato usarla. Comprensibilmente, in parte, perché è difficile prorogare ormai una convenzione scaduta il 21 maggio scorso. Esattamente ciò a cui puntavano i 5 Stelle e Crimi, che non a caso ora spiega: «Ad oggi non è possibile un rinnovo in assenza di una legge; l’impegno è che si farà nel più breve tempo possibile in ambito parlamentare con una legge».

Vito Crimi

Il sottosegretario si prende pure lo spazio per rivendicare la propria posizione: «Non accetto che si dica che affamiamo Radio Radicale, nell’anno 2019 il Centro produzioni Spa ha ricevuto un intervento pubblico pari 9 ml di euro a fronte dei 12 ml percepiti negli anni precedenti». Il servizio pubblico? Quello «è esclusivamente limitato alla trasmissione delle sedute parlamentari, il resto è altro. Ben venga quindi che per la prima volta un governo ha apportato un cambiamento. Uno choc al sistema per poi poterlo regolamentare bene».

Una frase che tradisce una certa megalomania, ma tant’è.

«Ben venga una gara, che Radio Radicale chiede pubblicamente dal 1998», commenta l’emittente che però al contempo chiede «che si arrivi rapidamente ad una soluzione per la copertura del periodo transitorio, che va dal 21 maggio scorso all’assegnazione della medesima gara. Senza questa rapida soluzione transitoria il servizio svolto da Radio Radicale fino ad oggi rischia di interrompersi».

Passare per un disegno di legge in Parlamento equivale alla chiusura dell’emittente. Occorre, fa notare l’Fnsi che si affianca alla lotta della testata radicale, «un provvedimento urgente che assicuri la continuità del servizio scongiurandone l’interruzione». Perché altrimenti salvare e digitalizzare l’archivio storico, interrompendone contemporaneamente l’aggiornamento, è atto da mummificatore, non da Governo.