Fac ut ardeat. «Does anyone know if Mussolini/Italian fascists had a particular relation to the Stabat Mater/Pergolesi, or Jacapone de Todi?» 13 maggio 2012. Leggo la frase in inglese qui riportata sulla bacheca Facebook della scrittrice statunitense Rachel Kushner. Incuriosito, rispondo. Lei mi spiega più nei dettagli la motivazione della domanda. Una ricerca. Per cosa? Nasce un dialogo su diversi temi giocoforza correlati alla questione. I pezzi del puzzle cominciano a incastrarsi. Alla fine vengo a sapere che si tratta di una ricerca per il suo nuovo romanzo – il secondo – che vedrà la luce un anno più tardi e che oggi è riconosciuto come uno dei grandi romanzi americani pubblicati di recente, The Flamethrowers, finalista al National Book Award 2013, la seconda volta per la scrittrice. E da poco, da noi, è uscita la traduzione italiana, I lanciafiamme, per Ponte Alle Grazie (la traduzione è di Stefano Valenti, il prezzo 18,60 euro).

Fac ut ardeat. È l’epigrafe del libro, un rimando a diversi riferimenti, diverse «storie». Se si vuole, prima di tutto, anche un potenziale rimando a quella della stessa Kushner, «spirito» indomito e critico, radicale, curioso di tutto o quantomeno di molti argomenti. Classe 1968, originaria di Eugene (Oregon), vita in movimento tra West e East Coast – sostanzialmente di base a Los Angeles ma ora, momentaneamente, a Ithaca (Ny), assieme alla propria famiglia (il marito è Jason E. Smith, filosofo estetico e politico di valore). Frequenti viaggi in Europa (anche in Italia, a partire dalla prima permanenza, breve ma significativa), narratrice di formazione ma soprattutto per vocazione, allo stesso tempo estremamente interessata e competente di altro, di arte contemporanea per esempio: una conoscenza acquisita sul campo, negli anni newyorkesi, testimoniata oggi dalla sua attività saggistica per riviste quali Artforum. Una conoscenza che si mostra in tutta la sua ricchezza anche ne I lanciafiamme, dove proprio a tale arte è dedicato ampio e significativo spazio – al riguardo, per una bibliografia d’ «autore»: http://www.theguardian.com/books/2013/jul/24/rachel-kushner-top-10-books-1970s-art. Siamo a New York, 1975.

Questa è quella che si può definire come una delle due «scene» più importanti del romanzo – l’altra è l’Italia dell’epoca, tra Bellagio (Como) e Roma. Si può dire allora che tra Stati Uniti e Italia si sviluppa la linea temporale principale della trama. Questa segue le vicende di una giovane donna statunitense, dalla «provincia» alla grande mela. Si può dire sia interessata alle motociclette, alla velocità, all’arte. Si può dire sia destinata a fare esperienza. Si fa chiamare Reno, come il luogo da cui proviene (Reno, Nevada).

Grazie a lei – e di riflesso, alla scelta stilistica della narrazione in prima persona (scelta espressiva vincente, su più fronti) – progressivamente scopriamo il mondo artistico di New York nel pieno dell’esplosione culturale di quel periodo, fra gruppi (artistici e no), cambiamenti sociali e urbani, nuovi «imperativi» (su tutto, la con-fusione tra arte e vita). Qui si legherà all’artista Sandro Valera – discendente di una importante famiglia industriale italiana di pneumatici e motociclette – e questo legame la porterà nell’Italia in pieni anni di piombo, a situazioni dove la propria vita privata sarà attraversata e stravolta dal corso degli eventi, dalla storia con la s maiuscola: prima a contatto con la borghesia, col mondo del potere, sperimentando la propria estraneità in merito; poi, una volta nella capitale – come fosse una sorta di «deriva» – a contatto con i movimenti radicali, il terrorismo, sperimentando una vita clandestina.

A tutto questo, a dare profondità a quanto menzionato – una profondità tanto storica quanto simbolica – c’è da aggiungere quella che si potrebbe definire come la seconda linea temporale della trama, dove si svela la storia della famiglia Valera: delle origini di un potere industriale; del quadro storico contestuale (la prima metà del Novecento, fino al Fascismo). È in questa parte del romanzo inoltre che si manifesta il legame tra titolo dell’opera e personaggi, il suo senso nella narrazione. Un legame e un senso che assieme si offrono come possibile contributo (letterario, creativo) al tema della dialettica tra storia e rivoluzione. Sotto il segno del fuoco.
Fact ut ardeat. A crearsi e consumarsi – simultaneamente – sono in definitiva le esperienze, l’arte e la rivolta come performance. La storia «brucia» e non si dà storia altrimenti: questa l’impressione suggerita dalla lettura, l’impressione personale di chi, qui, scrive. Nel romanzo, la forza metaforica del fuoco sembra poter assumere una posizione centrale anche in relazione a determinati altri aspetti salienti dell’intera, pirotecnica operazione, aspetti in grado di restituirne la latente complessità su più livelli del discorso.

Su tutti, il rapporto tra narrazione e cultura visiva (già esplicito nell’edizione originale per via della presenza di riproduzioni di determinate immagini, quelle per esempio di fotogrammi e fotografie di film citati e periodi evocati). Nello specifico, tra narrazione e cinema. Ora, parte della dedica del romanzo è già di per sé significativa, rivelatrice. «E per Anna, in qualunque luogo sia (e probabilmente non sia)». Anna, qui, è la protagonista dell’omonimo film di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli (1972-75), film sul quale la stessa Kushner ha già scritto un saggio magistrale – apparso nel novembre 2012 su Artforum e su queste pagine il mese successivo – ma dal quale non smette di farsi coinvolgere.

Da una conversazione via e-mail: «Anna è l’esempio perfetto di film che viene fuori come arte, che crea una direzione che è realmente originale, innovativa e audace e anche, come storia, dopo così tanti decenni, si offre come un ipnotico e indeterminato viaggio nel tempo di un momento storico in Italia. Ci sarebbero un sacco di cose da dire riguardanti lo stato delle cose in Italia guardando questo film». Ne I lanciafiamme tantissimi sono i film menzionati, ma – ipoteticamente, idealmente – qualora si volesse azzardare a trovare una possibile dialettica tra narrazione e cinema, si può suggerire come questa probabilmente offra una sintesi in due casi, tali da rendere le figure evocate come sorta di «doppi» di Reno e questi film restituiti con l’aura di documenti storici, «historiophoty» dell’epoca (nel senso dato al termine dallo storico statunitense Hayden White).

Nella prima parte – quella americana – il pensiero va alla «China Girl» immortalata da Morgan Fisher nel suo corto Standard Gauge (1984). All’inizio della sua avventura newyorkese, Reno lavorerà per qualche tempo proprio – appunto – come modella di laboratorio per le prove colore e stampa della pellicola. Un ruolo decisivo per la messa a fuoco dell’immagine finale per le proiezioni di allora ma impersonale, marginale, invisible agli spettatori. Un ruolo – nella lettura data dalla Kushner – incorporato da Reno, fatto parlare, reso visibile, ri-messo a fuoco nel suo simbolismo, anche politico. Nella seconda parte – quella italiana – il rimando è al già citato film di Grifi e Sarchielli.

Qui l’operazione della Kushner sembra indiretta ma non meno efficace, dato che la riscrittura non è del soggetto ma della situazione. Nell’approdo momentaneo a Roma seguiamo Reno e la troviamo attraversare gli spazi di Anna, quella storia, ri-messa a fuoco – in continuità, in relazione simbolica – con la trama degli eventi. Senza incontrarla direttamente, quasi come le passasse vicino. Quasi come fosse lei. Un fantasma? Come detto, in ultimo Reno dovrà sperimentare la clandestinità, sulle soglie della sparizione (dalle rivolte di Roma alla neve delle Alpi). Una sparizione simile a quella incarnata dalla stessa Anna, secondo l’autrice. «A noi è ancora assegnato il compito di fare il negativo, il positivo ci è già dato», scriveva Kafka. Qui il negativo è nel fuoco della storia. In girum imus nocte et consumimur igni.