Una sorta di scissione antiromantica, tra il basso continuo della lingua quasi monotona di Rachel Cusk e le vibrazioni determinate dal contatto con le debolezze caratteriali delle diverse persone (non personaggi) incontrate dalla autrice, accompagna la salutare frustrazione che coglie il lettore alla ricerca di una qualche trama, congedandolo dalle pagine della trilogia avviata con Resoconto, proseguita con Transiti e ora conclusa da Onori (in sintonia la traduzione di Anna Nadotti, Einaudi Stile libero Big, pp. 192, € 16,50) con l’impressione che nulla sia successo sotto i suoi occhi.

In realtà, una sequenza molto serrata di ritratti al tempo stesso ordinari e esemplari si è dispiegata su queste pagine prive di clamori, dove Rachel Cusk allestisce una sorta di catalogo della condizione umana nell’età del narcisismo, che implicitamente aggiorna l’esposizione delle bêtises di flaubertiana memoria. Rinunciando a ogni tentazione di infierire, e anzi nascondendo tra le righe l’ironia, quasi involontaria, che promana dalle parole via via ascoltate nel corso dei suoi incontri, la scrittrice – inglese di adozione, canadese di nascita – ritrae donne e uomini come attanti sulla scena del mondo, sottraendoli alla loro elaborazione in personaggi e con ciò aggiungendo un’altra peculiarità alla sua interpretazione del romanzo. E mentre si affida alla esposizione di un campionario del genere umano, del tutto compatibile con la ordinarietà delle nostre esperienze, Rachel Cusk completa la sua scommessa antiperformativa escludendo dalle proprie pagine ogni esibizione di virtuosismi tecnici e esplosioni lessicali.

Ospiti, editori, giornalisti
Per quanto sia ipotizzabile la fedeltà dei resoconti di Rachel Cusk ai fatti davvero accaduti, ciò non toglie che essi siano montati ad arte nel corso della trilogia, alla quale è evidentemente funzionale il ripetersi dell’incontro, nel primo e nell’ultimo romanzo, con un vicino di poltrona in aereo. Nell’incipit di Resoconto era il discendente naturalizzato inglese di una famiglia di armatori greci, qui è l’ex dirigente di una società finanziaria internazionale, in viaggio per raggiungere moglie e figlia non prima di avere vegliato sugli ultimi giorni del loro cane malato.
Di Pilot, il cane, il viaggiatore riporta con coinvolgente partecipazione gli azzardi animaleschi, ma al tempo stesso la tensione del racconto è affidata al ruolo di implicito mediatore di tensioni che il cane ha svolto nell’intrico dei rapporti familiari. Come già negli altri romanzi di Rachel Cusk, la voce narrante, in prima persona, arretra sulla scena per fare posto ai racconti di chi, nella veste di ospite, editore, giornalista, avrebbe il compito, in realtà, di interrogarla. Il suo nome, esplicitato una sola volta dalla voce di uno dei due figli al telefono, è Faye: come la firmataria del libro, anche la voce narrante fa la scrittrice, ed è appena approdata a un festival letterario in Germania.

Resoconto di una vacanza
Le viene incontro, per primo, il neo-direttore della casa editrice che pubblica i suoi romanzi, un parvenu cresciuto nel mondo del marketing, il quale – guarda caso – ha portato in breve tempo l’azienda «dall’orlo del fallimento a quello che prometteva di essere l’anno più redditizio». Appena finito di farsi bello del proprio bagaglio di letture, l’uomo passa a vantarsi della giovane autrice recentemente acquisita alla sua casa editrice e ora sopraggiunta sulla scena del romanzo, Linda: dalla voce di lei ascolteremo, nella perfida trascrizione di Rachel Cusk, il resoconto di una vacanza da incubo presso il castello di una fin troppo riconoscibile contessa italiana, «cui piaceva spendere i soldi del marito defunto circondandosi di scrittori e artisti». Sintetica, ancorché impietosa, la rappresentazione dell’«atmosfera di reciproca prostituzione» evocata dal racconto di Linda registra le avances amicali della contessa «esclusivamente come condivisione dei momenti in cui ci si tortura».

Dei non pochi intervistatori che ruotano intorno alla scrittrice nell’ambito del festival, la prima si congeda non avendole fatto pronunciare una sola parola e annunciando, in compenso, la pronta stesura di un «pezzo lungo, importante»; il secondo si presenta come inviato, per il più celebrato quotidiano nazionale, ogni giorno su un nuovo fronte, ciò che legittima l’estensione della sua ignoranza; il terzo annuncia, nel mezzo di un pranzo, che la sua idea sarebbe trattare la scrittrice come fosse un personaggio pescato dai suoi libri, ciò che la metterebbe «nelle condizioni di scrivere l’intervista al posto suo»; e l’ennesimo, il più esilarante, terribilmente serio, le notifica le proprie considerazioni sulla cosiddetta «letteratura negativa», che – «aveva notato – traeva gran parte della sua forza da un uso impavido della sincerità». Non prima di avere citato con nonchalance Bataille, e avere confezionato la sua domanda ferale, il critico «per correttezza» informa la scrittrice del fatto che «una sua recensione negativa poteva uccidere un libro…I suoi amici gli consigliavano, se voleva affermarsi come scrittore creativo, di smettere di attaccare ferocemente il lavoro altrui, ma era come chiedere a un uccello di smettere di volare o a un gatto di smettere di cacciare… Per non menzionare il dovere morale del critico di correggere la tendenza della cultura a equilibrismi tra sicurezza e mediocrità, una responsabilità non misurabile in inviti a cena».

Tutto l’inventario delle sentenze in dotazione al vanaglorioso moralista è squadernato con magistrale ironia, ma ciò che contribuisce a rendere unica la voce di Rachel Cusk è il suo ritrarsi da ogni tentazione di andare oltre la superficie del preteso resoconto, al quale rimandano – con funzione al tempo stesso di richiamo alla realtà e di frammentazione del ritmo narrativo – locuzioni del tipo: «ha detto», «ha notato», «si è interrotta», « si è limitata a dire», come se la responsabilità della voce narrante volesse esaurirsi nell’ambasciata di ciò che ha ascoltato, e il suo ruolo si realizzasse nel suscitare negli altri il desiderio di esporsi.
Quanto alle rare irruzioni dell’Io sulla scena, Faye sembra renderle inevitabili solo per rispondere alle chiamate telefoniche dei figli: dal secondogenito, che finalmente pronuncia il suo nome, Faye ascolta senza apprensione il racconto angosciato di una ragazzata senza gravi conseguenze, e, a conferma del suo carattere ritroso, spende per lui poche sobrie parole.

Negativo, ovvero per sottrazione
Come Rachel Cusk riesca, spogliando i suoi romanzi di ogni tradizionale risorsa – trama, personaggi, svolte nella vicenda – a imporsi all’attenzione del lettore è questione che ha generato uno sconcerto ben esemplificato dalla annaspante frase conclusiva della recensione riservata dal «New Yorker» a Onori: «non è tanto un romanzo al negativo quanto un romanzo sul fallimento di scrivere un romanzo al negativo». Forse, piuttosto, vale ancora per Rachel Cusk ciò che scrisse a suo tempo Wordsworth a proposito del poeta che si ritrova in un ruolo originale: «deve creare egli stesso il gusto che lo farà amare».