Secondo Maurizio Carucci «l’Appennino, in questo momento, a livello storico-economico e sociale, potrebbe svolgere un ruolo di fermento, utile a tracciare nuove strade di fronte a quelle interrotte, in quest’epoca un po’ turbolenta, con le fabbriche ormai chiuse e uno spaesamento collettivo». Uno dei punti da cui parte la riflessione del cantautore genovese, leader degli Ex-Otago (sul palco di Sanremo nel 2019), è che «in Appennino si ha, ancora oggi, la possibilità di delegare poco, una cosa estramente controcorrente, ma comune fino a pochi decenni fa, agli anni Cinquanta. Quando tutti si facevano tutto».
Carucci in Appennino ci vive: fa il contadino in Val Borbera, nell’alessandrino, alla Cascina Barbàn, un progetto agricolo che porta avanti con la compagna Martina e una coppia di amici, Pietro e María Luz (www.cascinabarbàn.com). Producono vino, mele e la Fagiolana bianca di Figino (il nome della località dove ha sede l’azienda), e seminano grani di varietà tradizionali. «L’Appennino – racconta all’ExtraTerrestre – potrebbe rappresentare oggi la ricerca di una vita, di un’esistenza, più a contatto con la realtà. In un mondo spesso troppo complesso».

La passione per il territorio della Val Borbera oggi Carucci ha scelto di trasmetterla in documentario, in lavorazione, intitolato «AppenninoPOP. Viaggio in Val Borbera tra vini, temporali e rivoluzioni possibili»: «Voglio raccontare questo lembo di terra, e con questo l’Appennino, di cui la gente ha un’idea non proprio aderente alla realtà. L’Appennino deve tornare ad essere contemporaneo: sono contrario alla sua musealizzazione».

Che cosa significa, per te, POP?

È mia intenzione portare il tema dell’appennino nelle tv delle persone comuni. Tutta la mia vita la baso su questo: POP significa costruire ponti tra ciò che faccio e la massa. Mi piace essere trasversale, e credo che sia un bel gesto: un atteggiamento generoso, che contiene anche tanta inclusività, di cui abbiamo grande bisogno. Anche nel mondo contadino mi è capitato di incontrare rigidità, situazione di esclusività deleteria, perché secondo me il mondo contadino dev’essere di tutti. Il grande problema è che questo mondo è troppo lontano dalla gente: chi non ci si avvicina, non può avere idee ponderate.

Che cosa rappresenta per te la Val Borbera?

Siamo arrivati qui con una Fiesta scassata, dopo aver cercato un posto in tutto l’entroterra ligure, da Savona a La Spezia. Me ne sono totalmente innamorato, perché è effettivamente caratteristica, molto aperta. Vengo da Genova, dove c’è poco cielo, poca luce, e di fatti nell’entroterra genovese non si fa il vino. In Val Borbera, con tutto questo sole, invece è una produzione tradizionale, da secoli. Siamo stati accolti sempre in modo positivo: i miei dieci anni di contadinanza precedenti mi hanno insegnato che avremmo dovuto investire sulle relazioni, per questo prima ancora di aver la nostra casa andavo in valle, ad aiutare con la vendemmia, o a zappare le fagiolane. Moltissimi, in valle, mostrano affatto per Cascina Barbàn: ci sentiamo molto sostenuti. Siamo sempre stati in concertazione, amicizia, ascolto. Il documentario, come altre azioni che abbiamo fatto, nasce in fondo per promuovere questo territorio. È lo stesso lavoro che abbiamo fatto con l’associazione Oltre le Strette, che nasce per favorire nuovi insediamenti. Alcuni, pochi, non hanno ancora capito che se cresce il territorio, cresciamo tutti. Se funziona Cascina Barbàn. ne vivranno effetti positivi anche il bar, o il ristorante. Lo spopolamento per la valle è un problema disastroso. E a livello politico, a parte Marco Guerrini, che è sindaco di Carrega Ligure, e considero un «fuoriclasse», sento che in tutto l’Appennino manca una visione politica del futuro, qualcuno che guardi a dieci anni, in profondità, non c’è. Questa mancanza di visione ha portato la valle oggi in ginocchio.

Il documentario è un cammino attraverso la valle. Perché avete scelto questa dimensione?

Il cammino rappresenta un ottimo modo per conoscere e viaggiare: a me piace camminare dove non è usuale farlo, ed è uno strumento per approfondire i territori. Abbiamo fatto a piedi, Martina ed io, un viaggio a Milano che è stato estremamente formativo, perché siamo passati dall’Appennino più selvaggio della Val Borbera, passando per Voghera e Pavia, fino alla metropoli. Il cammino è il viaggio: sono annoiato dai viaggi moderni. Non è per me prendere un aereo da una città all’altra. L’ultima volta (nella primavera del 2019, ndr) siamo andati a Piacenza dalla Cascina Barbàn, ed è stato molto bello. Del camminare, apprezzo anche quando devo spostarmi lungo le strade comunali e sulle provinciali: può essere anche necessario, anche per rendersi conto della “bruttezza”, ma anche per comprendere appieno il senso dei luoghi, i linguaggi, conoscere le persone. E poi la dimensione del cammino è estremamente curativa: hai tantissimo spazio per te, per riflettere, per mettere e metterti in discussione.

Chi sono i protagonisti del documentario?

Alcuni sono soggetti che abbiamo individuato, che consideravamo necessario includere. Persone che abbiamo raggiunto per parlare con loro della Val Borbera. Altri, invece, sono persone che incontriamo in giro. AppenninoPOP farà parlare tutti, dalla benzinaia di Pertuso (al momento ci abbiamo provato, ma senza sucesso), al boscaiolo, al cuoco, all’antropologo. Ma anche il ricercatore università di Torino e la barista di Albera. Il nostro obiettivo è un racconto corale della valle, che dia voce a tutti.

Che immagine vorresti emergesse da AppenninoPOP?

Che l’Appennino è un’opportunità. Uno spazio che può permettere, a chi lo desidera, di ricominciare da capo, da un bianco, un punto neutro. Oggi per la prima volta l’essere umano si trova dinanzi a questa possibilità: vivere una vita rurale, contadina, ma connessi al mondo, grazie alla tecnologia. È evidente che un contato virtuale e basta è non soddisfacente, ma prima c’era solo isolamento.