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Racconto d’inverno

Moscow Mule In una sera di un novembre berlinese, durante un dibattito post film, al festival Around the World, ovvero, quattordici film dei festival più importanti dell’ultimo anno, gli animi si scaldano. […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 15 dicembre 2018

In una sera di un novembre berlinese, durante un dibattito post film, al festival Around the World, ovvero, quattordici film dei festival più importanti dell’ultimo anno, gli animi si scaldano. Jan Bonny, al suo secondo lungometraggio dopo “Counterparts” (presentato a Cannes nel 2007), deve affrontare il nervo scoperto della società tedesca. Il suo film “Germany. A Winter’s tale” (“Wintermärchen“), in concorso quest’anno a Locarno, è uno sguardo provocatorio su una sfigata cellula clandestina di neonazisti. Due uomini e una donna (bravissimi gli attori Thomas Schubert, Ricarda Seifried, Jean- Luc Bubert) in delirio narcisistico inseguono un personale german dream che esclude il mondo multietnico. Vivono di frustrazioni, di rabbiosa promiscuità sessuale, di rapine e assalti che non forniscono la gloria attesa. La mancanza di un contesto storico politico definito, controllato e controllabile rende qualche spettatore presente al dibattito nervoso: con veemenza non esitano a definire il film di Bonny al limite del disgustoso. Per il regista non si pone la necessità di un realismo giornalistico; il suo occhio dentro l’estrema destra non è pedagogico, non è didattico. Siamo nei dintorni di Colonia, non nell’attualità pressante dei fatti di Chemnitz. I personaggi rappresentano l’estremo di una realtà apparentemente normale e l’incipit del film ne è una prova: una coppia è sull’orlo di una sopravvivenza anche economica, forse farà una rapina, forse si lasceranno, forse l’amore redimerà la crisi. Quando entra in scena l’altro, il lavoro di Jan Bonny si chiarisce come un macabro innesto tra Jules et Jim e l’atrocità cruda e grottesca di Von Trier in cui una brutta copia di idioti è sganciata dalla storia e fluttua nel mondo normale. Il dramma della relazione è utile al regista per creare una sorta di empatia, per quanto disturbante. È qui che la furia del dibattito travolge il serafico autore; la “normalizzazione” implica un boccone indigesto da inghiottire che si chiama, da sempre, la banalità del male. Jan Bonny con il suo racconto d’inverno segue un nuovo modo di trattare la storia contemporanea, dove l’ideologia si frantuma nello smarrimento dei corpi e del sesso connesso alla violenza quasi per caso. A volte rispunta nella critica la questione di un nuovo cinema tedesco dopo i grandi autori come Herzog, Wenders o Fassbinder e la meteora della Berliner Schule. L’era delle scuole o movimenti sarà anche andata ma per fortuna c’è chi, comunque, ha una precisa idea di cinema.

 

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