Il 27 dicembre 1991 Hervé Guibert, infettato dall’Aids, moriva al principio del suo trentasettesimo anno. Lasciò un certo numero di «romanzi» e una considerevole raccolta di fotografie da lui stesso scattate. Il mondo che abbandonava, oltre quello della scrittura, era l’universo delle proprie immagini nelle quali aveva espresso un fortissimo narcisismo autobiografico: l’amore per il proprio corpo nella sua raffigurazione rappresentata, quella con cui perseguiva l’autofiction: una pratica e uno stile rigorosi e crudeli capaci di mutare l’autore medesimo nel voyeur delle proprie immagini riflesse come in uno specchio. È l’invenzione di una esibita complicità subita anche da chi contempla le sue opere fotografiche totalmente «libere» che, al di là della forma, emulsionano una pratica a un tempo autoindulgente e arrogante. Guibert, piacendosi, innamorato della propria immagine, era riuscito a essere crudele con sé e con il mondo. E a un tempo delicato. Lasciando inoltre in chi si avvicinasse a lui traverso la lettura dei suoi testi, un senso di desolata nostalgia. E in chi contemplasse le sue opere fotografiche una specie di processo fantasmatico: la rivelazone della oscura pulsione che si sostanzia relazionandosi con il desiderio. Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, quasi un testamento «spirituale», circolò un autoritratto fotografico di lui: Hervé Guibert consapevole della propria conturbante bellezza fisica, si esibiva nudo, mentre impudico si masturbava.
Si era iniziato alla fotografia nel 1972, a diciasette anni. Si serviva in principio di una piccola Rollei 35. «Io sogno che la fotografia abbia la stessa valenza manuale della scrittura. Sogno che i fotografi si mettano a scrivere e gli scrittori fotografino. Ciascuna delle due “forme”, scrittura e fotografia, sono ad un tempo l’indicibile e l’innominabile». L’immagine di sé, ovvero il vertice immobilizzato dalla camera di ogni bel momento da mandare all’immaginario del futuro, è capace di creare contrasti e falsi effetti che trasportano verso una forma della finzione. La realtà è trasfigurata. La fotografia e la scrittura sono entrambi coniugabili come esperienze altre.
Della fotografia e delle sue forme e valenze dal 1978 Guibert aveva cominciato a scrivere su Le Monde. Il 28 febbraio 1980 recensì l’appena uscito La chambre claire di Roland Barthes, allora uno dei maestri dell’esegesi sulla fotografia. La recensione era «un capolavoro di ambivalenza – commenta acutamente Emanuele Trevi –, come se ne scrivono a volte quando si è giovani ed è proprio il peso di ciò che ammiriamo che si desidera scrollarsi di dosso».
Hervé Guibert come ogni giovane che voleva emergere cercava occasioni per conoscere i personaggi più significativi della Parigi del suo tempo. L’incontro con Barthes è Guibert medesimo a raccontarlo. Si era presentato, anonimo, a uno degli affollati seminari del grande semiologo. «… Barthes arrivò, timido… Nel totale silenzio dell’anfiteatro cominciò a parlare. Mi dissi allora ‘Che ci faccio io qui? Questo tipo è un cadavere…un pedante da morire. Non voglio certo vivere in una nausea del genere’. Mi alzai e me ne andai. Altri erano già usciti. Pensai, tanto peggio». Ma Guibert, che aveva già inviato a Barthes il suo libro Mort propagande, con la sua «fuga» dal seminario aveva fatto di tutto per essere da lui individuato. Sapeva che la propria bellezza, di cui era cosciente, non poteva passare inosservata. Da lì a poco trovò nella cassetta delle lettere una busta. Era di Barthes. Gli diceva che aveva letto il suo libro e proseguiva: «Vorrei parlare con voi del rapporto tra la scrittura e il suo fantasma. Ma senza incontrarvi. Soltanto per lettera». Si scrissero a lungo. Quel carteggio ispirò a Guibert un nuovo libro. «Barthes devait écrire una preface. Il a posé comme condition que je couche avec lui. Et pour moi ce n’était possible. A cette époque, je n’aurais pas pu avoir de relation avec un homme de cet âge. Ecco come ho conosciuto Barthes». Per Guibert Barthes era un uomo di grande delicatezza. Lo trovava di una noia monumentale.
Devono essere anche queste ragioni del profondo che spinsero Guibert a «scattare» un libro sulla fotografia, senza immagini. Una forma di esegesi autobiografica sviluppata nel rivelatore del ricordo: un procedimento che avviene a similitudine per la nascita di una fotografia. L’indicazione per quei testi è immediata: «racconto ciò che mi dice una immagine fotografica». Ed è qui che si materializza l’impalpabilità del «fantasma reale» che viene rivelato nel bagno di sviluppo delle memorie impressionate nel tempo e stampate su un cartoncino sensibile, reso reale da un processo fisico-chimico. Per una curiosa affinità, consimile al groviglio fisico-chimico che delinea quel che chiamiamo per comodità l’anima di un individuo.
Hervé Guibert scrisse una serie di tranche de vie con le pulsioni dell’animo ispirate dalla contemplazioni di fotografie, «rappresentazioni figurate» che composero L’image fantôme pubblicato nel 1981, ora in italiano: L’immagine fantasma (traduzione di Matteo Martelli, introduzione Emanuele Trevi, Contrasto, pp. 192, € 14,90). «Ciò che mi ha spinto a scrivere è stato il rimpianto per le foto sbagliate, le foto che non sono riuscito a scattare, che non ho potuto fare, che si sono rivelate invisibili, come fantasmi. Ho pensato di scrivere per ritrovare la stessa sensazione che volevo dare a quelle foto».
L’image fantôme non è un testo teorico, neppure una interpretazione filosofica o estetica, semmai un album di storie che esplorano, attraverso il personale procedere dei giorni, quali temi ispiratori, le occasioni dell’esistente coniugati alle diverse maniere dell’immagine fotografica che si connaturi come perpetuazione del ricordo: la fotografia familiare, di viaggio, le fototessere, le Polaroid, la fotografia pornografica o giudiziaria. Gli autoritratti che nello scorrere del tempo si contemplano diventati quelli di un estraneo: «non ero più io».
Gli esperimenti testuali di Guibert esaminano la specificità dell’articolazione tra forma e fantasia; tendono a dimostrare la compenetrazione tra l’immaginario e i processi creativi. L’analisi di questa cartografia delle fantasie permette di rivalutare i rapporti oscuri tra vita e invenzione artistica, e di saldare il rapporto testo-fotografia.
L’image fantôme è fatta da una scrittura tipo una serie di scatti fotografici, intima e profonda, che esplorata da esegeti dell’immagine e del rapporto tra gli intellettuali del tempo in una stagione di una nuova attenzione verso la fotografia, collocherebbe il libro di Guibert a commento simbolico e «polemico» della Chambre claire di Roland Barthes. Ardua affinità, sia pur nel comune argomento trattato. Tra Guibert e Barthes esisteva una «strana comunanza»: una analoga attenzione per il «mistero» della camera oscura, o variabilmente chiara: maniera di definirla secondo personale e originale sensibilità. Trattarono entrambi, con occhi stereoscopici, il celebrabile meccanismo fisico-chimico passabilmente capace di riprodurre il «reale» nell’illusione di moltiplicarlo o «fermarlo», sempre che l’immagine prodotta con il «magico» procedimento corrisponda perfettamente a quanto si percepisce e non sia soltanto un astratto e individuale e non oggettivo punto di vista. Guibert sembra alludere e invitare a compiere un esperimento negromantico: proporre quale unica fotografia dotata di senso quella che prende forma nella camera oscura che si impressiona nella mente di chi, esplorandolo, sta «contemplando» un testo scritto.