Il 1990 è un anno fondamentale per comprendere le vicende politiche successive del Paese. Un vero e proprio spartiacque tra mondi differenti. Tra le società umane per come le si era sempre conosciute e le società virtuali contemporanee, nelle quali ognuna delle dimensioni entro le quali si erano solitamente strutturate, hanno cominciato a somigliare sempre di più alla loro rappresentazione.

PRIMA DI BERLUSCONI
Il movimento del 1990 intuiva quasi tutte le contraddizioni del suo tempo, tutte riconducibili alla lenta emersione di un neoliberismo che in quegli anni poneva le sue radici. Per ognuna delle immagini vincenti attraverso le quali intendeva rappresentarsi, il movimento mostrava l’immagine opposta, utile a svelarne le contraddizioni, andandola a cercare nel futuro. A volte l’intuizione si faceva analisi politica anche molto avanzata, come nel caso della privatizzazione dei servizi e del contrasto al monopolio editoriale e televisivo berlusconiano. Più spesso esprimeva soltanto il principio di una critica, l’indisponibilità quasi emotiva a credere alle nuove favole del capitale.

Tra le tante intuizioni della Pantera va senz’altro menzionata la sua capacità di comprendere le trasformazioni che da quel momento in poi avrebbero riguardato la «società dello spettacolo». Come pochi altri capì l’importanza e si fece interprete, del racconto di se stesso attraverso l’immagine e i media. Si impadronì dei suoi codici. Provò a cavalcarli. Alcune volte ne uscì vincente altre sconfitto, come nel caso della partecipazione a «Samarcanda», o nel momento in cui scelse di abbracciare la trovata di due pubblicitari interni al movimento, identificandosi, con tanto di ratifica assembleare, in un nome e in un logo. Il fatto che il testo di Naomi Klein, No logo, pubblicato solo nove anni più tardi, individuasse proprio nell’abitudine a contrarre significati in un nome e immaginari in un simbolo, una delle modalità attraverso le quali il capitalismo dei disastri riduceva a strategia di marketing qualsiasi ipotesi di discorso, a cominciare dal discorso politico, la dice lunga su quanto il movimento fosse stato superficiale in quell’occasione.

NEL SEGNO DEL VHS
Il movimento del ’90 fu senz’altro vincitore invece, nella capacità di autorappresentarsi attraverso il codice filmico. Se nei movimenti dei decenni precedenti questa intuizione riguardò sostanzialmente due persone, Silvano Agosti e Alberto Grifi, nella Pantera, chi prima e chi poi, anche grazie al concomitante diffondersi di strumenti elettronici di ripresa a basso costo come il vhs, comprese fin dal principio l’importanza di documentare quanto accadeva nelle facoltà in prima persona. Youtube sarebbe arrivato solo quindici anni più tardi. Quello dei filmakers ante litteram della Pantera era ancora un uso politico dell’immagine. Il disperato tentativo di non piegarsi ai dettami della società dello spettacolo paventata da Debord. Di non cedere alla definitiva spettacolarizzazione della realtà nella consapevolezza che «lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine». In quanti decisero di filmare le vicende della mobilitazione c’era la consapevolezza che le trasformazioni tecnologiche prossime venture, all’epoca nemmeno embrionali e che pure vennero intuite dal movimento, avrebbero comportato la virtualizzazione di ogni ambito della vita sociale e lo stravolgimento dei rapporti umani.

I nuovi dispositivi digitali avrebbero reso ancora più semplice la riproducibilità tecnica delle immagini di cui scriveva con preoccupazione Benjamin, fino a consentire ad ogni abitante del pianeta il suo minuto di celebrità, come ben aveva previsto Warhol. L’«esibizione» di una quotidianità privata e tutto sommato insignificante, quando non della propria immagine, finiva per diventare la massima ambizione dell’individuo.
La Pantera rivendicava invece la necessità di un’immagine ancora edificante, autoprodotta e messa al servizio dell’impegno politico. Cuciva in questo modo il legame tra rappresentazione e realtà. Cercava di opporsi con le sue pratiche alla definitiva «estetizzazione della politica». Si faceva interprete, a volte senza neppure saperlo, delle migliori aspettative di Benjamin, reclamando la necessità che il racconto per immagini fosse ancora esercitato in chiave emancipatoria e non fosse messo definitivamente a servizio del potere.

NEL SOLCO DI BENJAMIN
All’interno della Pantera si formò giornalisticamente e politicamente Antonio Russo che imparò i primi rudimenti della videoripresa proprio in quel contesto, ispirandosi a quanti, tra i quali il sottoscritto, avevano deciso di documentare autonomamente le vicende del movimento. Le videoriprese di denuncia fatte in seguito da Antonio Russo in Ruanda e soprattutto in Kosovo, Georgia e Cecenia, che verosimilmente firmarono la sua condanna a morte, vanno lette proprio nello spirito di quel movimento e nella sua marcata propensione ad un uso politico dell’immagine e dell’informazione. Antonio Russo era uno youtuber in anticipo, così come precursori della contemporaneità digitale vanno considerati tutti coloro che ripresero l’esperienza della Pantera per raccontarla solo molto tempo dopo, nella consapevolezza che i tempi e i modi del racconto politico emancipatorio non coincidono mai, neppure incidentalmente, con i tempi della società dello spettacolo.

Ora finalmente, chi ne ha fatto parte, ha deciso di far riemergere il ricordo dell’esperienza del 1990. Il riaffiorare di quella che fu e non poteva altro che essere l’intuizione per certi versi inspiegabile di un’intera generazione, potrà forse contribuire a costituire un argine in più al virus neoliberista, che sempre si accompagna al pericolosissimo ed errato convincimento che sia impossibile provare ad arginarlo.

*autore di C’era un’onda chiamata Pantera. (Libro e Dvd), Manifestolibri, 2010