«La polizia ha fatto uso di cannoni ad acqua sui dimostranti in piazza contro la legge del lavoro»… «una ondata di scioperi e di mobilitazioni sociali scuote il paese». Così si può leggere su alcune agenzie in merito al clima sociale in un paese nel cuore dell’Europa. Molto si parla in effetti – almeno negli ambienti politicamente più radicali – della loi travail e del movimento che vi si oppone. Ma invece – sorpresa! – parliamo del Belgio.

Anche il piccolo paese bilingue vede la sua riforma del lavoro, proposta dal ministro Peeters, sia pur solo allo stato di bozza. Ma i contenuti sono filtrati a sufficienza, tanto da mettere d’accordo i tre sindacati più importanti (Fgtb, vicina ai socialisti, Csg, centrista, Cgslb, di centro-destra) su un piano unitario di mobilitazioni, proteste e scioperi condivisi. Diversi commentatori, entrando nel merito della riforma hanno fatto un raffronto con l’omologa legge francese: si tratta di ulteriori dosi di flessibilità, in quanto sposterebbe il monte ore da una fissità settimanale a un periodo annuale, in modo tale da concedere una distribuzione del lavoro a beneficio totale del comando d’impresa, arrivando ad esigere una settimana lavorativa di 45 ore.

Oltre al fronte sindacale si va formando un movimento sociale articolato ed eterogeneo, detto di «bloccatori e bloccatrici», «giovani, precari, occupati e disoccupati…» in consonanza e parzialmente, convergenza organizzativa coi francesi di Nuit Debout.

Germania, Spagna, Italia, Francia, Belgio: in molti paesi europei ulteriori dosi di precarizzazione lavorativa vengono decisamente somministrate con ritmi accelerati nell’epoca della crisi dei debiti sovrani. Accelerazione che trova una sua ragion d’essere nella trasformazione della finanza da elemento economico centrale nell’agenda del potere (e non è poco) a vero e proprio fattore istituzionale capace di impartire direttive, in quanto incarnata nelle istituzioni della Ue. L’annuncio della nuova legge è stato dal dal governo belga in occasione del controllo del bilancio, una procedura di verifica interna allo stesso esecutivo della corrispondenza fra le spese preventivate e quelle effettive. In quel quadro si fa uscire una proposta di massima su nuove norme sul lavoro e si promette un disegno di legge articolato entro l’estate. Qual è il collegamento?

Nelle raccomandazioni-paese cucinate dalle istituzioni comunitarie per il Belgio (ogni paese ha le sue) uscite nel 2015 per l’anno seguente vi erano 4 punti: 1. aggiustamento di bilancio; 2. riforma fiscale; 3. “miglioramento del funzionamento del mercato del lavoro riducendo i freni finanziari all’impiego» e favorendo la formazione di manodopera poco qualificata; 4. «ristabilire la competitività vigilando affinché l’evoluzione dei salari rifletta quello della produttività». La lista del 2016 è più corta, i punti sono solo tre, al n. 2 chiede la riforma della legge del 1996 – con quasi le stesse parole. E’ la legge che fissa i criteri fondamentali sulla normazione del lavoro – già moltissime volte modificata fra l’altro. A quanto pare il governo ha dovuto avviarsi in quella direzione.

I governi diventano sempre più organismi esecutori di centri di potere comprendenti istanze nazionali e sovranazionali. Il movimento belga, come l’omologo – e più famoso – francese si sviluppa con forte trasversalità e incusività ma è urgente focalizzare l’assetto trasversale dei promotori di una crescente precarizzazione, e la sua base europeo-finanziaria. Solo così si può ricorrere alle vere cause del problema.