Uno dei torti che potremmo fare alla raccolta d’interventi di Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema e teatro (Mondadori «Oscar Moderni», a cura di Luca Daino, pp. 488, e 15,00), è di considerarla solo come un libro di stroncature. Scopo del volume, scrive il curatore nell’elegante introduzione, è invece «colmare la sfasatura che si è aperta tra l’effige raboniana meglio conosciuta e la realtà del suo multiforme impegno quotidiano, e insomma fra la silhouette canuta e angelicata del Raboni raffinato poeta e acuto esegeta di versi e la sua identità di pubblicista, di intellettuale engagé». Del resto, anche se il libro non avesse l’intento chiarito da Daino, leggerlo solo come un’antologia di stroncature sarebbe comunque improprio. In primo luogo perché Meglio star zitti? non contiene solo recensioni negative, ma anche piene espressioni di consenso (per esempio nei confronti di un semiclassico del primo Novecento come A.O. Barnabooth di Larbaud), non-stroncature (come quella su Un borghese piccolo piccolo di Cerami) o addirittura difese (come quella postuma a favore di Fortini). In secondo luogo perché ‘stroncatura’ è un termine inadeguato a definire l’idea di critica che emerge da questi pezzi.
In un articolo del 2001 uscito nel Corriere della Sera («Perché oggi non è possibile la stroncatura») Raboni osserva quanto poco conti per lui «che qualcuno, di tanto in tanto, “faccia fuori” un libro in modo perentorio, iperbolico e brillante come è nella tradizione del genere stroncatura. Importante sarebbe che la critica dicesse di tutti i libri che contano, in modo pacato, disteso e motivato, tutto il male – ma anche, quando è il caso, tutto il bene – che è giusto e utile dirne». Se la critica non ha più questo ruolo, «rimpiangere i bei tempi delle stroncature è come dolersi che un paralitico non sferri più calci o che un cadavere si rifiuti di sgambettare». È vero che tra i centosettanta interventi militanti (su un totale di oltre quattromila), scritti tra il 1964 e il 2004 per il Corriere, Il Messaggero, «L’Europeo» e altre testate, non mancano espressioni idiosincratiche tutt’altro che pacate, distese e motivate: vale per tutti il non-giudizio su Montale, che Raboni rimuove dispettosamente dal canone poetico del Novecento, scommettendo con «più serena e convinta fiducia» su Saba, Rebora, Tessa, Ungaretti e Luzi («E allora io tolgo Montale e aggiungo Volponi», 1998). Ci sarebbe da stupirsi, nonostante il valore della cinquina, se non fosse evidente che qui e altrove Raboni dà voce all’umore: del resto poteva permetterselo. Ben altrimenti motivati sono i saggi dell’«acuto esegeta» (li si può leggere in La poesia che si fa, a cura di Andrea Cortellessa, uscito da Garzanti nel 2005) che contemplano anche una giustificata svalutazione del tardo Montale.
Ma nonostante qualche eccesso idiosincratico, l’esempio di Raboni fornisce un efficace antidoto contro alcuni dei difetti più diffusi nel mondo della critica letteraria, come l’ossessione un po’ puerile di compilare graduatorie e fabbricare canoni; una tendenza così pervicace che lo stesso Raboni almeno una volta cade nella trappola, stilando le liste contrapposte dei libri «da scordare» e di quelli da «amare». (Il pezzo in questione, «A onor del vero», del 1988, si chiude con una celebre boutade: «Sotto il profilo letterario Eco va assolto per non aver commesso il fatto»). Ma l’atteggiamento di Raboni verso la tirannia dei canoni si apprezza nelle obiezioni al Canone occidentale di Bloom, che esclude tra gli altri Petrarca e Boccaccio, Rabelais e Lope de Vega, Donne, Hölderlin, Flaubert, Dostoevskij, Baudelaire… «Cosa diavolo» si può consigliare al critico americano, si chiede Raboni: «Che cambi mestiere? Che si faccia curare? Che mediti per qualche mese in solitudine sulla differenza fra canone e cannone? No, no, meglio star zitti: non foss’altro perché se ci mettessimo sul serio a redigere l’elenco degli esclusi e a stabilire anche noi, per via di integrazioni, il nostro “canone”, rischieremmo di apparire non meno presuntuosi, non meno prepotenti, non meno ridicoli di lui». («De gustibus non est disputandum», ’94).
Ogni canone è una religione e ogni serio, non strumentale ed egocentrico tentativo di contestarlo è un gesto di laicismo: questo spiega tra l’altro la reazione nei confronti di Montale (che è appunto una forma d’insofferenza, manifestata da Raboni anche a costo di mettere in discussione la storia, la sua storia). È così, cioè attraverso la metafora dell’atto critico come forma di emancipazione, che si comprende la natura di Meglio star zitti?, che è soprattutto un libro contro un’idea dello scrittore in quanto mito, celebrato in una ideale galleria di uomini illustri delle lettere (e, in misura minore, del cinema) o più modestamente gratificato dal successo nazionalpopolare. ‘Mito’, quasi sempre in accezione negativa o limitante, è del resto una parola ricorrente in questi scritti, che prendono di mira volta per volta il «mito» di Fellini e quello di Visconti; «l’inconsistenza o la scomparsa di un mito» come Piccola città di Thornton Wilder; il mito della «benefica “sprovincializzazione” della cultura letteraria italiana» di cui si giova il Gruppo 63. «Non voglio passare per un dissacratore di miti», scrive nell’88 Raboni a proposito di Calasso e dell’Adelphi, ma si direbbe il contrario.
Al genere nazionalpopolare appartengono gli autori dei «libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false», i soli che per Raboni valga la pena stroncare («Le monete false scacciano quelle buone», ’69). Sono ad esempio i personaggi televisivi travestiti da scrittori, come Gene Gnocchi e Giobbe Covatta; possono essere i beniamini midcult come Stefano Benni o Susanna Tamaro – oggi tramontati o al crepuscolo, ma utili come emblemi delle rispettive categorie. Meno effimere e più istruttive sono le stroncature o le recensioni chiaroscurali dedicate ad autori maggiori, nelle cui opere Raboni intravede però i segni della superfluità o peggio dell’inautenticità, lo scadimento dell’ispirazione in maniera e della poetica in stereotipo: da Festa mobile di Hemingway (al centro del primo articolo nella raccolta, apparso in «Palatina» nel 1964) a Le antimemorie di Malraux, da C’era una volta il West di Sergio Leone a Teorema di Pasolini, dal film Il giardino dei Finzi Contini di De Sica a In questo stato di Arbasino (oggetto di una delle recensioni più ironiche, in cui Raboni gareggia per arguzia con l’autore di cui scrive). L’elenco degli autori e delle opere sarebbe troppo lungo: per farsene un’idea non c’è che da scorrere l’ampia appendice bibliografica e l’indice dei nomi che corredano utilmente quest’edizione.
Critiche più o meno affilate coinvolgono anche Borges e Kundera, Sanguineti e Thomas Berhnard, e naturalmente Italo Calvino, in generale non amato da Raboni e piuttosto detestato per le Lezioni americane (a proposito di ‘miti’, eccone uno tra i più tenaci della critica italiana in assetto militante: la superficialità o addirittura la dannosità dell’ultimo Calvino). Anche se, come in questo caso, non si condividono tutti i suoi giudizi, si deve riconoscere a Raboni la virtù di aver saputo esprimerli in termini chiari, in base a criteri riconoscibili e sicuri, senza lasciarsi guidare da settarismo, pregiudizio, interesse, risentimento. Sembra ovvio, e non lo è. Oltre a invocare un ‘ritorno’ alla stroncatura, occorre capire come, quando e perché è meglio non stare zitti. Questo libro può aiutarci.