Un video pubblicato ieri su Twitter ha dato da solo la misura di quanto stava accadendo nella base militare turca di Shelazide, a Duhok, nord-ovest del Kurdistan iracheno: soldati turchi puntano i fucili automatici su centinaia di manifestanti disarmati.

Nel primo pomeriggio di ieri una protesta senza precedenti è esplosa contro la presenza turca nella regione: in centinaia hanno preso d’assalto la base militare, hanno dato fuoco a veicoli blindati, container e tende dell’esercito di Ankara, preso il controllo di alcuni carri armati e lanciato pietre contro i soldati, costretti alla fuga.

Alcuni manifestanti sono saliti sui carri e hanno esposto cartelli contro i raid turchi, mentre i jet di Ankara usavano a loro piacimento lo spazio aereo di un altro Stato per lanciare razzi di avvertimento e volare così a bassa quota da generare il panico tra i civili. Ma i turchi hanno anche aperto il fuoco, prima di scappare: un manifestante è stato ucciso, un ragazzino di 13 anni, identificato sui social come Hussain Rekani. Una decina i feriti.

La rabbia ieri era incontenibile, alimentata da mesi, anni di illegittimi bombardamenti lungo il confine tra Iraq e Turchia: i caccia del presidente Erdogan che intendono stanare i combattenti e la leadership del Pkk dalle montagne irachene di Qandil fanno strage di civili. Trentasei nel 2018, centinaia in quasi tre decenni, a cui va aggiunta la distruzione di case e campi coltivati, la ricchezza di queste comunità immerse nel verde, che vivono di agricoltura a valle e pastorizia in montagna e che sono diventate luogo di villeggiatura tra i più amati nel paese.

Le ultime vittime risalgono a mercoledì: sei morti nel villaggio di Deraluk, nel distretto di confine di Amedi, di cui due giovani ritrovati due giorni dopo in una grotta dove avevano cercato inutile rifugio. Secondo l’agenzia curda Rudaw, Ankara avrebbe bombardato il distretto di Amedi 98 volte nell’ultimo anno. Non solo lì: a metà dicembre bombe turche sono cadute sullo storico campo profughi curdo di Makhmour, a sud di Erbil, quattro donne uccise.

Ieri per placare la rabbia popolare il governo regionale del Kurdistan ha inviato decine di veicoli militari e le Asayish, le forze di sicurezza, che però sono riuscite a fare ben poco: la folla era già dentro la base. La sola cosa che la polizia curdo-irachena ha portato a termine è il ben poco onorevole arresto di sei giornalisti della tv Nrt e il loro autista, detenuti mentre raccontavano dall’ospedale di Duhok la situazione dei feriti.

Arresti in linea con le dichiarazioni rilasciate in serata dal governo curdo-iracheno: «Non vogliamo che il nostro popolo sia più vittima nella sua terra – ha detto un portavoce di Erbil – Chiediamo al Pkk di lasciare i nostri villaggi. Vogliamo che Turchia e Pkk rispettino la nostra sovranità». Ma il Krg non riconosce il coraggio di chi ha manifestato contro le violazioni turche: li ha definiti «rivoltosi» e promesso «di punirli».

La richiesta della gente però è chiara: il ritiro turco dal territorio curdo-iracheno, radicalizzatosi nell’ambito di un’operazione terrestre e aerea di lunghissima durata, che ha visto le sue origini con la prima guerra del Golfo e l’ottima accoglienza riservata alle autorità turche dal Kdp di Masoud Barzani.

Una presenza che la Turchia ha ampliato a dismisura approfittando dell’avanzata dell’Isis nella regione dal 2014 in poi: oggi sono 20 le basi militari turche in territorio curdo-iracheno, 14 nella provincia di Duhok e sei in quella di Erbil (non a Suleiymaniya, controllata dal Puk dei Talabani, storicamente vicino all’Iran). Da cui i continui bombardamenti su postazioni del Pkk, vere o presunte, grazie all’avanzata terrestre: le truppe turche si sono spinte fino a 30 km dentro il Kurdistan iracheno.

Mentre la base di Shelazide veniva presa d’assalto, durissima era la reazione in casa turca. Il ministero della Difesa ha parlato di «provocazione del Pkk». Ma a farsi sentire è stato soprattutto Erdogan: «Sono stati dispersi dopo che i nostri aerei e droni si sono alzati in volo. Li colpiremo nei loro buchi». Insomma, noi abbiamo i jet. Usati regolarmente, in violazione della sovranità irachena e nel silenzio di Erbil e dei paesi occidentali.

Il Kdp ha tutto l’interesse a cacciare il Pkk da Qandil e a rafforzare i rapporti con la Turchia, messi in crisi nel settembre 2017 dal referendum sull’indipendenza voluto da Barzani. Baghdad, al contrario, protesta e convoca l’ambasciatore turco, ma finora non ha trovato orecchie interessate ad ascoltare.