Dopo la casa chiusa dell’Apollonide e la casa della moda di Saint Laurent, Bonello cambia epoca e tema. Nocturama è la storia di un gruppo di ragazzi e ragazze, che decide di far saltare in aria alcuni luoghi simbolici del potere e non solo: il grattacielo Total, la borsa, il ministero degli interni, la statua di Giovanna d’Arco. E in fondo insiste ancora su un chiodo fisso del suo cinema: mostrare un’utopia.

Mostrare un’utopia è a sua volta un progetto utopico? Di certo, non è una cosa facile 

Quello di Nocturama è un progetto al quale lavoro da sei anni. Vale a dire da molto prima che il terrorismo sul suolo francese tornasse d’attualità. Ma è chiaro che gli attentati di Charlie Hebdo del 7 gennaio e dopo la strage del Bataclan del 13 novembre avranno una grande influenza sullo sguardo che il mio film riceverà. Cosa succederà? In genere, quando ho finito un film, riesco a immaginare il tipo di accoglienza che gli verrà riservato, ma in questo caso la distribuzione è un salto nel buio.

Nel frattempo, una prima reazione c’è stata: il film non è stato selezionato a Cannes. La scelta di una selezione va ovviamente rispettata, ma «Nocturama» era molto atteso e alcuni giornalisti, sorpresi di non trovarlo in lista, hanno chiesto spiegazioni. Thierry Fremaux ha detto che non lo aveva visto, mentre Éduard Waintrop della Quinzaine ha rivendicato la scelta dicendosi in disaccordo con il contenuto politico del film…

Fremaux ha mentito, ovviamente aveva visto il film. Ma non credo si tratti di malevolenza, non si aspettava la domanda e non aveva voglia di parlare del film. Come se fosse un oggetto al quale è meglio non avvicinarsi. Per Waintrop è diverso. Si è assunto con onestà una scelta che va rispettata… Anche se l’argomento può suscitare qualche perplessità. Che cosa vuol dire non essere politicamente d’accordo? L’impressione è che tutti vogliono semplicemente tenersi a distanza.

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Anche il film precedente, Saint Laurent, era un oggetto «pericoloso».

Vero. Ma in quel caso il motivo era chiaro e distinto. Un uomo molto potente, Pierre Berger, aveva deciso di dichiarare guerra a suon di processi a chiunque si fosse avvicinato al film. E nessuno ha voglia di mettersi contro Pierre Berger. Ma Nocturama non capisco a chi possa far paura…

Tentiamo un’interpretazione.

Per prima cosa, si vede un gruppo di persone che mette delle bombe a Parigi. E questo di per sé è un problema: Parigi è una città toccata dagli attentati, terrorizzata. Poi c’è il fatto che siamo sempre e solo con loro. Non c’è un altro punto di vista nel film. Passiamo due ore con questo gruppo. E anche questo è un problema. Come il fatto che sia tutto impostato sull’azione, senza dare una spiegazione. Ma io ho voluto trattare solo il come e non il perché. E anche questo può essere uno degli elementi «disturbanti». Per me si tratta di una scelta di scrittura: non volevo un gruppo omogeneo, unito da una sola idea. Volevo poter mettere insieme un gruppo eterogeneo socialmente e politicamente, che non fosse rappresentativo di un settore: la periferia, l’islam, la sinistra rivoluzionaria, la borghesia illuminata… Un gruppo unito solo dalla rabbia. La rabbia può avere mille ragioni, e mille rabbie diverse possono incontrarsi e fare un pezzo di strada assieme. Si tratta di un postulato utopico o se vuoi un partito preso della finzione.

Che impatto hanno avuto gli attentati sulla realizzazione del film ?

Come ho detto, il soggetto è stato concepito sei anni fa, quindi nella fase di scrittura nessun impatto. L’attentato a Charlie Hebdo ha coinciso con la fine del finanziamento: quando sono andato a presentare la sceneggiatura al CNC (Centro nazionale della cinematografia), la reazione è stata esplosiva. Hanno detto, in sostanza: «come osate presentare una sceneggiatura simile dopo quello che è successo ?» Con il produttore, ci siamo posti il problema di rimettere mano alla sceneggiatura, ma abbiamo capito subito che avremmo sbagliato: la finzione ha le sue regole, così come la realtà ha le sue. Io non pretendo di raccontare la realtà, non sono un giornalista né uno storico. Sono un regista. Essere un regista vuol dire intuire qualcosa e dargli una forma di finzione. Per me, la forma era giusta prima e quindi era giusta anche dopo. I miei produttori mi hanno seguito e siamo riusciti a finanziare il film.

A proposito di reazioni, il Fronte Nazionale non apprezzera che gli bruci il loro simbolo preferito: Giovanna D’Arco… 

Sono piuttosto soddisfatto di come la scena è venuta.

Come gli effetti speciali, anche la lotta armata ha la sua…tecnica. Hai cercato di informarti per scrivere la sceneggiatura?

Volevo che il film fosse un incontro tra verosimiglianza e astrazione. Ci sono dei dettagli molto precisi, ma il gruppo è formato da ragazzi non è Mission Impossible. Il loro sapere militare è quello al quale posso avere accesso anch’io senza passare per grandi esperti, formazione, consulenze… Ho guardato su internet dove si può trovare ogni sorta di informazione.

So che sei un appassionato di «The Wire». C’è qualcosa che hai preso in prestito dalla serie di David Simons?

Sì. Ma l’idea non è mia, è dei ragazzi. Quella di comunicare attraverso un codice fatto di foto, senza testo. È una cosa che si vede nella quarta stagione di The Wire.

Un grande punto di forza di «The Wire» è il linguaggio. Che tipo di indicazioni hai dato ai ragazzi? 

Io ho scritto un testo. Con la mia lingua e il mio modo di parlare. Poi ho lavorato con gli attori. Gli ho fatto ripetere il testo ad alta voce. Gli ho chiesto di dire la stessa cosa alla loro maniera, con le loro parole. Devo dire che non è tanto il testo ad essere cambiato, ma il modo di articolare le parole. O meglio di non articolarle per nulla…

Come hai scelto il gruppo?

In maniera un po’ arbitraria ho deciso che volevo cinque ragazzi con dell’esperienza cinematografica e cinque con un’esperienza di militanza. Per i primi, ho dato un’occhiata a qualche film recente con dei giovani. Per gli altri, la direttrice del casting è andata a scovarli frequentando i luoghi dove si ritrovano gli autonomi. Volevo che portassero dentro di loro una specie di coscienza. E che nell’azione, anche la più banale come camminare da un punto all’altro, fosse presente la coscienza di compiere qualcosa in vista di un’obiettivo politico

Hai avuto delle discussioni politiche con loro?

Certo. Mi aspettavo di trovare una certa resistenza. E del resto l’idea di far saltare in aria dei luoghi simbolici del potere appartiene a un’altra epoca. Oggi la collera, quando c’è, si esprime in maniera diversa, ma questo non li scioccava particolarmente. Sono stato criticato da persone della mia generazione. Waintrop, per esempio, mi ha spiegato che per lui, il film è sbagliato perché il terrorismo di oggi non è come lo racconto io. Le bombe sono di altri tempi e altre forme di terrorismo e con questo film – sempre secondo il suo parere – confondo jihadismo e cultura politica dell’estrema sinistra. Ma io non ho interesse ad essere realista. Il mio compito non è di descrivere il terrorismo di oggi. Ciò che desidero è cogliere una sensazione. Sensazione che è una variante della storia: la rabbia che sente di non potersi esprimere altrimenti che con un’insurrezione armata. A questa variante che è l’insurrezione io ho dato una forma particolare. Ma che non ha nulla di realista. Non deve esserlo.

Qual’è, per Waintrop, la realtà ?

Per lui, oggi, le persone che sentono quella rabbia non vanno a mettere delle bombe, non fanno terrorismo, vanno a piazza della Repubblica a creare qualcosa di nuovo. Secondo lui, un gruppo come quello che ho pensato in Nocturama non andrebbe a mettere delle bombe, andrebbe a piazza della Repubblica. Il mio film sarebbe dunque pericoloso perché farebbe confusione tra Nuit Debout e Daesh, che invece sono due cose ben distinte.

Si sbaglia?

Lui parte dal presupposto che il gruppo che io immagino esiste: sarebbe rappresentativo della microsocietà multiculturale dei quartieri nord-est di Parigi – miscuglio di piccola e media borghesia francese, studenti, stranieri, classi popolari, ma che io lo invio nel posto sbagliato. Secondo me è il suo presupposto a indurlo in errore, perché il gruppo che io immagino non esiste in realtà: è un postulato della finzione. Detto questo, non è perché da un mese a questa parte una massa di gente discute a piazza della Repubblica, che non può esserci al tempo stesso una decina di persone pronte a mettere due o tre bombe. È la differenza tra realismo e realtà. Io non pretendo di essere realista, ma solo di dare forma a una sensazione. La mia sensazione è reale. Senza per forza essere realista.