Una storia normale quella che Silvia Bottani racconta nel suo esordio Il giorno mangia la notte (Sem, pp. 288, euro 17). Normale perché al centro di questo romanzo ci sono le passioni umane prototipiche: la rabbia, la paura, l’amore invincibile.

Stanley Cavell scrive, però, di quanto alla base della letteratura e in generale della verità ci sia «the uncanniness», il perturbante, che è anche, almeno in parte, lo straordinario. Può succedere, plausibile e insolito allo stesso tempo, che un ragazzo attivista fascista si innamori di una ragazza italiana di origini marocchine, perché a unirli, al di là di ogni evidente ostacolo, è il loro approccio guerriero alla vita.

Nel romanzo succede a Stefano e Naima, che rappresentano oltre alla beffa della sorte perché sono una coppia improbabile, anche una forza naturale: quella che resiste e permane dopo le catastrofi. Sono molti i fatti tragici che avvengono nel libro, come accade appunto anche nella vita reale, e Bottani è molto abile a raccontare proprio la commistione paradossale e inevitabile tra la tragedia e il quotidiano.

Il fatto che la madre di Naima venga investita mentre rincorre il suo scippatore ed entri in coma, se da una parte è un fatto eccezionale e devastante per i suoi due figli, dall’altra ha un aspetto di assoluta banalità: la morte di una donna marocchina sulla sessantina non diventa certo una priorità per le forze dell’ordine, per la società; mentre il colpevole non viene cercato.

MOLTO INTERESSANTE il racconto approfondito che l’autrice fa dell’attivisimo fascista: dalla sua organizzazione politica alla modalità squadrista e violenta di intervenire nella realtà per seminare momenti di terrore, di umiliazione. Si tratta di uno spaccato affatto frequente, specie nel contesto degli esordi della narrativa italiana dove, più in generale, la politica non occupa quasi mai un ruolo da protagonista, di rado, a dire il vero, fa la sua comparsa. Qui è il filo conduttore: unisce Stefano al suo migliore amico, detto Bufalo. Sarà anche la ragione, in parte, del loro conflitto. Bottani è brava soprattutto a consegnare come il fascismo sia strategia del terrore e anche, in grande parte, voglia di menare le mani.

ANCHE NAIMA ha voglia di picchiarsi. E in varie occasioni nel romanzo lo fa. Certo, per la frustrazione accumulata da quando è nata ed è stata vittima di insulti o scherzi razzisti, ma anche per qualcosa che condivide non solo con Stefano, ma con la città di Milano intera: un senso di impotenza, di fine, che spesso viene evocato nel romanzo, una saturazione di ingiustizie che tocca tutti e tutte, scaturendo reazioni diverse. Giorgio, vero protagonista del romanzo, il padre di Stefano, incarna proprio la città dello slancio mozzato: allora il vizio dell’alcolismo, l’impossibilità di sedare le proprie voglie, che siano di denaro, sesso, del gioco d’azzardo. Come nella realtà ordinaria, anche nel romanzo di Bottani a essere prevista è una salvezza solo parziale.