Quella di The Bug non è musica pacificata. Nonostante più di trent’anni di carriera alle spalle e i tempi incerti in cui viviamo, tra le tracce del britannico Kevin Martin scorre ancora l’energia, la rabbia, l’urgenza. Fire, l’ultimo album uscito per l’etichetta Ninja Tune, è una colonna sonora per tempi infernali che non si abbatte di fronte alle difficoltà ma piuttosto rilancia con un corpo a corpo ancora più stringente. La formazione musicale di Martin ha le sue origini nel post-punk e di quel mondo ha portato con sé l’approccio frontale, diretto e aggressivo; l’amore per la musica giamaicana lo ha però sempre influenzato e Fire non fa eccezione, mosso com’è da un irresistibile urto tra le ruvide sonorità dell’elettronica industriale, le cadenze hip hop e la cupezza del dub. È il primo disco vero e proprio, al di là di numerosi split e materiali pubblicati online, che il musicista propone negli ultimi sette anni sotto questo nome e lo fa riprendendo le fila di quanto ascoltato in Angels & Devils e London Zoo, che con questa uscita compongono un «trittico urbano incendiario».

LA PECULIARITÀ dei tre capitoli risiede soprattutto nelle collaborazioni alla voce. Anche nell’ultimo album infatti ogni traccia è cantata da rappers della scena londinese e non solo, chiamati a convegno per contribuire a questo attualissimo breviario della vivacità dell’underground metropolitano. Tra loro ci sono personalità che lavorano con The Bug da tempo come Flowdan, nome affermato del grime presente in tre canzoni tra cui Pressure (titolo omonimo ad un celebre album di Martin del 2003 e alla sua etichetta, lanciata qualche anno fa). La tensione sale con Demon, alla voce una new entry chiamata Irah, così come è una bella novità il contributo della cantante e poetessa afroamericana Moor Mother per la potente Vexed.
La maggior parte dei testi ruotano intorno alla guerra intesa come minaccia permanente all’interno della società causata dalla corruzione, dall’ingiustizia e dalla povertà. Ed è forse proprio grazie al fuoco di una comune rabbia, oltre che al talento del musicista e alla sua apertura mentale, che cadono le tradizionali barriere tra musica di ricerca e da club «per bianchi» e i versi d’assalto dall’anima «black», cercando una via comune che permetta di ballare insieme e di non farsi affossare dalle macerie di questo mondo.

AD APRIRE e a chiudere l’album ci sono alcuni versi del poeta e musicista Roger Robinson, membro di un altro progetto di Martin chiamato King Midas Sound, esempio di come la creatività del musicista possa esercitarsi su sonorità molto più rarefatte e fantasmatiche. Lo stesso è accaduto anche nell’album solista Return to Solaris pubblicato lo scorso giugno, una riscrittura originale della soundtrack del celebre film di Tarkovsky. L’attività su più fronti non sottrae qualità e onestà alle uscite di Kevin Martin e noi non possiamo che sperare che continui ad essere un tale collettore di energie, un acuto artista del malessere contemporaneo.