«I membri che coordinano gli scioperi saranno licenziati», così il ministro dell’Educazione Saaid Amzazi ha annunciato in una conferenza stampa a Rabat il 27 marzo le direttive da adottare per porre fine allo sciopero degli insegnanti che da più di tre settimane sta paralizzando il Marocco.

Dopo le tensioni dello scorso fine settimana – 10mila professori giunti a Rabat scesi in piazza per domandare la trasformazione dei loro contratti a tempo determinato annuali in contratti a tempo indeterminato sono stati violentemente dispersi dalle forze dell’ordine con idranti, lacrimogeni e ripetute cariche – e la successiva fumata nera al termine del tesissimo vertice di lunedì tra i rappresentanti dei cinque sindacati degli insegnanti e il ministro dell’Educazione, sono stati indetti altri tre giorni di sciopero dal 26 marzo a ieri.

«Il ministro ci ha chiesto di rinunciare allo sciopero, ma non ci ha fatto proposte concrete», ha dichiarato il segretario generale della Fne (Federazione nazionale dell’insegnamento), aggiungendo che gli insegnanti continueranno «a rifiutare il regime di lavoro a contratto in quanto sinonimo d’instabilità». La risposta del ministro non si è fatta attendere: se per i rappresentanti dei manifestanti scatterà il licenziamento, «tutti gli insegnanti a contratto che non torneranno a lavoro saranno denunciati come previsto per legge».

Raggiunto al telefono, Mohammed Abakhan – insegnate e militante associativo di lungo corso – prova a spiegare le ragioni della protesta. Se da un lato il governo insiste sostenendo che gli insegnati lavorano con dei contratti che garantiscono gli stessi salari di base dei docenti a tempo indeterminato (5mila dirham al mese, circa 460 euro), gli insegnanti precari reclamano «il diritto di essere assunti come funzionari pubblici e alle dipendenze dirette del ministero dell’Educazione e non indirettamente dalle Areef (Accademie regionali dell’educazione e della formazione)».

Ovvero enti semi-pubblici che non garantiscono ai lavoratori la possibilità di chiedere il ricongiungimento familiare – la maggior parte degli appartenenti a questa categoria è chiamata a insegnare nelle aree più isolate del paese e spesso fuori dalla propria regione – ma soprattutto diversi diritti in termini di acquisizione di contribuiti a fini pensionistici.

Questa nuova modalità d’impiego – fortemente voluta da un governo soffocato dal debito pubblico e costretto a operare tagli alla scuola e alla salute – riguarda direttamente i 55mila insegnanti assunti dal 2016 ad oggi (a fronte di 240mila insegnanti presenti sul territorio).

Le proteste degli insegnanti, accusati dal ministro Amzazi di «non avere alcuna legittimità legale», hanno trovato manforte nei colleghi a tempo indeterminato e nei principali partiti di opposizione, scesi in piazza domenica 24 al loro fianco contro la crescente privatizzazione dell’insegnamento.

Lo sciopero dura ormai dal 3 marzo e sono ancora 200 le scuole chiuse in un Marocco che da anni vede aumentare in maniera significativa la portata e l’impatto delle manifestazioni su tutto il suo territorio.

Il governo di El Othmani e più in generale la monarchia di Re Mohammmed VI dovrebbero forse guardare a episodi come quello del fine settimana passato come a spunti per un dialogo con la società civile, invece di proseguire su una linea che ha contribuito ad aumentare il divario tra classi sociali e il malcontento crescente di una porzione di popolazione sempre più grande e delusa dalle politiche del regno.