All’interno dei percorsi di «Vive le cinéma – Festival del Cinema Francese» (Lecce 14-18 settembre), la sezione Spazi aperti della visione dedica un incontro alle opere di Rä di Martino, eclettica videoartista che attraverso lo studio delle immagini crea un ponte tra passato e presente, tra realtà e finzione. Il video e la fotografia sono per l’artista il punto da cui partire per riscoprire la memoria collettiva e riconnetterla al presente, ma soprattutto la materia da plasmare per tracciare nuove domande e percorsi di senso.

Nei tuoi lavori spicca una relazione con gli archivi e i luoghi storici, qual è il tuo rapporto con la memoria?
Se devo tracciare una linea d’interesse, certamente è per quello che la memoria e l’inconscio assorbono dai media e come questi possono trasformarci. Ho iniziato da questa riflessione fin dai primi progetti: il lavoro sui set abbandonati nei deserti nordafricani rappresentano la ricerca di qualcosa che abbiamo visto nei film e sono entrati a far parte di un immaginario di cui però troviamo solo dei resti ed è strano perché da un lato hai questo feticismo di volerli vedere e sei felice che esistano, dall’altro sono come spazzatura ma affascinanti perché sembrano delle rovine. Forse il motivo principale per cui mi ritrovo spesso a lavorare su materiale d’archivio è una tendenza a studiare e ricreare delle immagini del passato per cercare di rimetterle in moto o di paragonarle al presente.

Spesso ricreo dei tableaux vivant partendo da foto che trovo come in Authentic News of invisible things, progetto sui carrarmati che ho realizzato a Bolzano. Il progetto nasceva sul territorio, dove abbiamo scoperto che esisteva un enorme fabbrica di carrarmati dell’Iveco, una delle più grandi d’Europa. Poi nei vari archivi ho trovato, soprattutto nell’Imperial War Museum, foto di finti carrarmati della prima e seconda guerra mondiale molto buffi, se li vedi oggi sembrano il set di un teatro. In questo progetto, oltre a una scultura di questi Dummy tanks, ho ricreato una foto di quando fu annunciata la fine della guerra: un gruppo di francesi uscendo finalmente da casa trovò questo finto carrarmato del 1918. Ho cercato d’immaginare cosa hanno provato nel trovare questo giocattolo di cartone dopo una guerra così spaventosa. Uso spesso questo gioco di ricreare delle foto come per il documentario sul Piper di Torino un progetto difficile perché dovevo raccontare la storia di un luogo di cinquant’anni fa che non ho mai visto se non attraverso un centinaio di fotografie e pochi altri documenti, da qui il titolo Piper 100.

Nel manipolare le immagini sembra che queste prendano corpo rivelando la loro carica materica, qual è il tuo rapporto con le immagini?

In effetti, c’è un voler toccare ed essere in quel momento fotografico, estrapolarlo e renderlo tridimensionale. Lo faccio in vari modi come nel mio progetto personale Alberi aperti, una serie fotografica aperta su cui continuo a lavorare. In questo progetto rielaboro foto di alberi che colloco nel cielo come se volassero, poi ricreo dei finti negativi che stampo in camera oscura ottenendo le foto analogiche di un tempo.
Stampare da negativo su carta fotografica da, in qualche modo, un senso di realtà, di qualcosa che è stato nel passato quindi è vero. Ho fatto la stessa cosa con Play House, delle foto molto buffe di donne ritratte davanti alla loro casetta appena costruita nel Far West.

Ora sto facendo una nuova serie utilizzando due archivi fotografici, si chiama Allunati e anche questo è un lavoro personale per una mostra che farò a ottobre presso la galleria Monica De Cardenas. Qui utilizzo delle foto del background lunare, messe a disposizione dalla Nasa, su cui creo con fogli d’oro delle sagome prese da foto di ogni tipo. Immaginavo come queste ombre di esseri umani arrivano sulla luna dalla nostra storia, anche perché gli esseri umani s’immaginano da sempre su pianeti altri, però la luna è talmente desolata che tutto diventa assurdo.

In queste manipolazioni si legge una riflessione tra realtà e finzione, come nel tuo film «La Controfigura».
È un intreccio che mi ha sempre interessato cioè quanto la finzione di qualsiasi tipo, film, letteratura e tutto ciò che assorbiamo, diventa parte di noi per poi essere proiettata nella realtà influenzando le nostre scelte. In Controfigura ho creato tante scatole dentro le scatole, dove passi da un piano all’altro: uno sembra la realtà più ovvia cioè noi che cerchiamo di girare il film anche se poi pure quello è per finta e poi le scene con gli attori che sono di fiction. Forse volevo parlare proprio di quanto per me è difficile chiedere allo spettatore di guardare solo una storia dall’inizio alla fine; per me ci devono essere molti punti interrogativi alcuni reali altri finti.

Nei tuoi lavori il cinema è citato spesso, qual è il tuo rapporto con il cinema?
Ho passato la mia infanzia a guardare film e ho sempre pensato di voler studiare cinema. Poi a Londra ho capito che non era così: le scuole di cinema erano molto classiche per me, dovevi lavorare in gruppo e imparare la grammatica classica del cinema. Ho preferito iscrivermi al Chelsea College of Art dove ti dedichi comunque al video e alla fotografia, ma in maniera autonoma e il punto di arrivo è finalizzare il tutto. È una scuola concettuale e mi sono trovata bene. Alla fine il cinema per me è una stanza piena di materiale che in qualche modo ho bisogno di attraversare. Siamo formati da quello che guardiamo quindi è difficile creare immagini nuove senza parlare di quelle che già abbiamo dentro; assorbiamo tanto materiale che è impossibile pensare di fare qualcosa di nuovo credendo di essere originali.

L’originalità oggi è una cosa difficile e non esiste veramente, ma è un portare avanti un discorso di qualcosa che c’è già; il nuovo viene nel senso che è tuo e sarà originale perché proviene da te. Siamo cosi oberati d’immagini che mi sembra etico riutilizzare delle cose già esistenti, è un omaggio e una forma di rispetto perché non puoi far finta che non esistono.