Una vera apartheid. Creata da Quota 100 fra lavoratori privati e lavoratori pubblici. La bozza del decreto che andrà a giorni in consiglio dei ministri così – come le anticipazioni del sottosegretario Claudio Durigon – conferma il diverso trattamento per i dipendenti pubblici. Con particolare acrimonia rispetto ai docenti di scuola, università e alta formazione. Se è vero che buona parte – 140mila sencondo le stime, circa la metà del totale – della potenziale platea dell’anticipo pensionistico è composta da lavoratori pubblici che tendenzialmente meno soffrono della discontinuità lavorativa e possono raggiungere i famosi 38 anni di contributi, il contrappasso previsto per loro dal governo è veramente beffardo. Le finestre – il tempo che trascorre dal momento in cui si hanno i requisiti richiesti (62 anni di età e 38 di contributi) al momento in cui si godrà del primo assegno pensionistico – per loro sono larghe il doppio rispetto ai dipendenti privati: sei mesi contro tre con prima uscita a luglio. Mentre per vedere il Tfr – già ora per loro passano fino a due anni – potrebbero volerci anche 8 (otto, sic) anni.

“Una disparità intollerabile”, denuncia la Fp Cgil. “Propagandavano la riforma della legge Fornero, hanno finito col peggiorare le norme relative ai dipendenti pubblici con un trattamento differenziato rispetto ai lavoratori del privato”. Annunciando che “sono già in corso verifiche sulla legittimità del provvedimento, in attesa di avere un testo definitivo, visto che il governo non discute con nessuno, tiene fuori il Parlamento e le parti sociali, agendo in maniera autoritaria”, denuncia la segretaria generale Serena Sorrentino.

Se l’uscita “differita per chi lavora nel pubblico, con la prima finestra disponibile a luglio e con un preavviso, per chi vorrà usufruirne, di sei mesi” era annunciata da tempo con la motivazione di “non lasciare sguarnite le amministrazioni pubbliche” (anche se le nuove assunzioni sono state bloccate fino a novembre), la beffa del Tfr è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Il trattamento di fine rapporto verrà corrisposto “al momento in cui il soggetto avrebbe maturato il diritto alla corresponsione”. “Tradotto: per alcuni dei circa 140 mila dipendenti pubblici interessati dal provvedimento c’è il rischio concreto che aspettino anche fino a 8 anni per avere ciò che gli spetta, la liquidazione”, attacca la Fp Cgil. Per la Funzione Pubblica Cgil, inoltre, “c’è poi confusione sull’intervento delle banche per l’erogazione anticipata del Tfr. Gli oneri per gli interessi saranno o meno a carico dell’interessato? Da come pare essere scritta la norma, gli interessi saranno a carico dei lavoratori. Dovevano cambiare la Fornero e dovevano valorizzare il lavoro pubblico e invece, senza ascoltare chi quei lavoratori rappresenta, non faranno altro che peggiorare le norme, con l’assurdità di far pagare alle lavoratrici e ai lavoratori gli interessi su ciò che spetta loro di diritto”, conclude Serena Sorrentino.

Ancora peggiore la situazione per il personale di scuola, università e alta formazione. “Il personale della scuola, per le particolari condizioni che ne regolano la cessazione dal servizio, ha dovuto presentare le domande di collocamento in pensione già entro il 12 dicembre scorso. Domande che sono state fatte avendo a riferimento i requisiti in quel momento necessari: se questi cambiano, non può essere che il personale scolastico debba attendere un anno in più per potersi avvalere delle nuove opportunità. Va dunque prevista una riapertura dei termini, pena il verificarsi un’intollerabile discriminazione”, denuncia la segretaria generale della Cisl Scuola Maddalena Gissi. Anche sul numero dei pensionamenti attesi entro il prossimo settembre “occorre giocare d’anticipo – prosegue Gissi – senza rimanere in attesa di eventi che potrebbero essere anche di portata considerevole. Occorre prendere le misure opportune perché in caso di un esodo consistente di docenti e personale Ata (amministrativi e tecnici, gli ex bidelli, ndr) va garantita la piena copertura dei vuoti in organico che potrebbero determinarsi. Mettendo mano, se necessario, a procedure di reclutamento su cui gli interventi legislativi fin qui prodotti si sono rivelati non risolutivi”, conclude Gissi.