Su Roma, a partire dal secondo dopoguerra, sono state svolte diverse e importanti narrazioni. La prima, tra il 1943 e il 1955, è quella dei film neorealisti di Visconti, Germi, De Sica, De Santis,. Una Roma post-bellica, una città provinciale che coincideva con la sua parte storica ancora non colonizzata dai turisti. Qualche anno dopo, tra il 1950 e il 1960, il genio profetico di Pasolini è riuscito a rappresentare la grande trasformazione di quegli anni: la fine di un mondo contadino e il dramma del sottoproletariato urbano, entrambi in via di cancellazione dalla storia con l’avvento delle prime manifestazioni di modernità. La letteratura sociologica e antropologica poneva intanto la sua attenzione su quello straordinario mondo di immigrati dal sud e contadini inurbati che si accampava a ridosso delle mura e che dava vita a inedite tipologie urbanistiche: borgate, borghetti, baraccamenti. Sono da ricordare le analisi di Ferrarotti e Macioti, le foto di Pinna, le testimonianze di vita come quella di don Sardelli all’Acquedotto Felice, le descrizioni dei grandi scrittori romani «d’origine» come Moravia o Elsa Morante, quella degli scrittori d’adozione come Caproni, Gadda, Gatto, Penna, Bertolucci.

La città, per la prima volta, si estendeva oltre le sue storiche mura, invadeva l’agro, la campagna romana; nascevano le nuove periferie che accoglievano il nuovo ceto impiegatizio, soprattutto coloro che, in città, lavoravano nelle aziende municipalizzate o nelle ferrovie. Da allora narrazioni importanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state. Quelle periferie, allora lontane, quasi sconosciute, una volta evocate sono entrate a far parte della storia moderna di Roma, le si sono – potremmo dire – «appiccicate addosso» come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna – diceva Pasolini – ma solo una, antica e moderna contemporaneamente. Nelle periferie storiche l’emarginazione, il senso di diseguaglianza veniva elaborato – ricorda Walter Tocci – tramite un altrove temporale, un’utopia di buona società, da raggiungere attraverso l’emancipazione. In sostanza, le periferie storiche non erano luoghi di disperazione, di solitudine, di disincanto; piuttosto luoghi carichi di speranza, dell’attesa di un riscatto. In esse trovava consenso e faceva proseliti il «vecchio» Partito Comunista che tra i suoi obiettivi politici comprendeva il progetto del riscatto di questo popolo contro il potere e il dominio delle grandi famiglie di proprietari di terreni e immobiliari poi.

La seconda grande trasformazione

Nel 1993 diventa sindaco Francesco Rutelli e dopo di lui, nel 2001 Walter Veltroni. In quegli anni, in Italia, si assiste al fenomeno chiamato «rinascimento urbano». Da Roma a Napoli, da Salerno a Catania, si inaugura la stagione dei sindaci che, eletti direttamente dai cittadini, danno vita a iniziative urbane che fanno nascere la speranza che cambiamenti significativi nella vita quotidiana sono possibili. Roma si appresta a progettare il nuovo piano regolatore che sostituirà quello precedente del 1961.

Il quindicennio rosso, dal ’93 al 2008, verrà ricordato per il tentativo di (presunta) modernizzazione di una città considerata in ritardo rispetto ai processi di rinnovamento avvenuti in altre città europee ed extraeuropee (Londra, Barcellona, Bilbao, e perfino Dubai). Ma cos’era realmente questa modernizzazione così tanto invocata e cosa sottendeva questa categoria (ideologica) del ritardo? Questa idea – la modernizzazione – si rivela ben presto un complice potente dell’ideologia liberista poiché essa viene alimentata dal dogma della concorrenza internazionale, dall’esaltazione della velocità, dal mito della decisione efficace, dal feticcio dello sviluppo, dall’eliminazione di ogni conflitto ritenuto un sabotaggio della stabilità politica. La competizione economica tra le città spinge inoltre queste ultime a «rifarsi il trucco» per adeguarsi alle regole dell’economia finanziaria.

La celebrazione di Grandi Eventi serve a imbellettare la città come fosse una vetrina, mentre prende piede e si afferma un modello culturale basato sull’individualismo proprietario, il successo personale, la competizione che fa perdere valore alla coesione sociale e alla responsabilità comunitaria. Tutto quello che non serve alla santa crescita (persone, culture, tradizioni, virtù) viene buttato via, diventa spazzatura, ritardo, appunto, perché le nuove regole stabiliscono che gli investimenti andranno solo dove la tecnologia sostituisce le forme tradizionali di vita e la velocità annulla le relazioni sociali e rende inutili i luoghi pubblici. Per altri versi non viene frenato il saccheggio del territorio iniziato molti anni prima e che ora agisce attraverso una moltiplicazione della ricchezza immobiliare in una città la cui crescita demografica si è arrestata sin dagli anni Settanta con due milioni e settecentomila abitanti. Le nuove regole liberiste impongono che per modernizzare la città occorre stabilire accordi con i privati quasi sempre con vantaggio tutto a favore di questi ultimi. La sensazione è che a questa crescita di ricchezza immobiliare fa da controcanto un sempre più impoverimento urbano in termini di marginalità, solitudine, coesione sociale, servizi.

Filippo Brancoli Pantera - Tor Pagnotta WEB

Nel 2008, anno della sconfitta clamorosa del candidato sindaco Rutelli, esce il libro di Walter Siti, Il contagio. Un libro che svela, più di qualsiasi analisi politica, il «risentimento» degli abitanti delle periferie che da tempo, avevano voltato le spalle alla sinistra. Le periferie considerate un tempo lo zoccolo duro del partito comunista, ora si sono trasformate in ghetti dove nessuno si salva. Ma la portata della trasformazione antropologica è ben più vasta di quella che appare. Abbandonata ogni ideologia, le borgate romane si sono adeguate ai valori borghesi del consumo e del possesso dell’ultimo gadget a ogni costo, ai sogni del successo, alla diffidenza reciproca tra persone, mentre la borghesia del centro tende sempre più a imitare questi modelli, periferizzandosi. L’ipotesi riformista alla base del modello veltroniano – il famoso Modello Roma – non trova alcuna accoglienza, anzi suscita indifferenza e ostilità («mai visto un borgataro riformista» è la battuta che si legge nel libro si Siti).

Una città diseguale

Un dato preoccupante che emerge dalla cronaca di ogni giorno è la crescita della diseguaglianza e della povertà. Esse formano una miscela esplosiva insieme alla sottoistruzione, microcriminalità, diffusione di droga, disoccupazione intellettuale, commerci illeciti. Sempre più la città appare la discarica della globalizzazione che frantuma i rapporti sociali, crea gruppi antagonisti, spinge verso l’individualismo predatorio. Sono questi gli obiettivi che la nuova giunta guidata da Ignazio Marino dovrebbe mettere ai primi posti: la lotta contro la povertà, le diseguaglianze, l’esclusione, l’isolamento per favorire la rinascita di un senso civico, la coesione sociale, l’appartenenza, la responsabilità sociale. Credo che questo possa essere fatto a partire dalla generazione dei giovani offrendo loro progetti e opportunità di lavoro per venire incontro ai loro bisogni economici ma anche ai loro desideri di convivialità, di fruizione culturale, di scambio di esperienze e per arricchire il capitale sociale e culturale della nostra città (si veda il progetto delle «Case Zanardi» per Bologna). Se non dalla città da dove dovrebbe nascere il rinnovamento auspicato? Non sono le città i laboratori sociali dove si può elaborare un diverso concetto di differenze, di cultura del limite, di spirito civico e di partecipazione all’uso del tempo e dello spazio quotidiano? In una parola, forse è proprio a partire dalla città che potrebbe essere restituita la speranza di un cambiamento della politica che si propaghi all’intero territorio, all’intero paese.