Aida è una traduttrice in forza al contingente olandese dell’Onu a Srebrenica durante la guerra: da spettatrice in una zona protetta, diventerà ben presto la forza motrice del film, trasformando una ricognizione documentaria in unadimensione di profondità storica, capace di assumere significati universali. In Quo vadis Aida? come a simboleggiare il dolore di tutte le donne in guerra il film prova così a superare gli schieramenti contrapposti, pure se è ben delineata l’arroganza del nemico, la brutalità dei serbi e il ruolo di vittime sacrificali dei bosniaci.

IL FILM diretto dalla regista bosniaca Jasmila Zbanic presentato alla Mostra di Venezia lo scorso anno e candidato agli Oscar come film straniero, ricorda a venticinque anni di distanza l’eccidio di ottomila (ottomilasettantadue) uomini di Srebrenica nel luglio del 1995. Con il suo esordio Il segreto di Esma (Orso d’oro a Berlino) elaborava conflitti personali riferiti sempre a dolorose problematiche legate alla guerra, Quo vadis Aida? allarga quella prospettiva di dolore intimo, mette in scena insieme alle responsabilità personali, le responsabilità dell’Europa, e l’impotenza delle Nazioni Unite che perderanno il controllo della «zona sicura» della città, con graduati incapaci e subalterni più simili a boy scout che a militari, con l’obiettivo della sicurezza di trentamila persone, sicuri che i loro ultimatum di possibili bombardamenti saranno presi sul serio dai serbi del generale Mladic.

Il film ha inizialmente l’andamento del reportage perché mostra via via le varie fasi dei meccanismi militari dall’una e dall’altra parte, per assumere ben presto un andamento labirintico senza via d’uscita, con una costruzione drammatica dal ritmo impressionante: conduce l’azione Aida, interpretato magnificamente da Jasna Duricic, in un film strategicamente guidato da donne: oltre alla regista autrice anche della sceneggiatura, la fotografia è di Christine A. Maier. Anche il ruolo di traduttrice della protagonista non è casuale: l’intreccio di inglese, serbo croato e bosniaco ha il valore di un ulteriore interessante elemento cinematografico di traduzione simultanea tra paesi e popolazioni che neanche si comprendono (e purtroppo si perderà con il doppiaggio che smusserà sia la violenza che l’incertezza ).

QUANDO è chiaro che non scatterà nessun ultimatum ai serbi se entreranno nella città che infatti è occupata velocemente e che una folla sterminata di trentamila persone si accalca ai cancelli della postazione dell’Onu, Aida cercherà disperatamente di mettere in salvo il marito e i due figli, riuscendo a farli entrare tra grandi difficoltà, contrattando in cambio la partecipazione del marito autorevole preside del liceo, alla delegazione che dovrebbe trattare con Mladic.

La costruzione drammatica incalza: inizialmente le responsabilità sembrano inesistenti: «Sto solo traducendo» dice Aida come «sono solo un pianista» dice il colonnello che si trova a fronteggiare una situazione che gli sfugge di mano, ma via via mentre la donna avanza come una furia nel tentativo di difendere la sua famiglia, si mostrano tutti i limiti dell’organizzazione internazionale senza poteri e non in grado di prendere decisioni e che porteranno infine alla strage con scene che ci riportano a eventi da campi di sterminio. La paura dei gas, i cani lupo a controllare le file meste e obbedienti verso gli autobus senza scorta, la consegna di tutti i documenti e di ogni oggetto affilato comprese le matite e le penne, la separazione delle donne e bambini dagli uomini che vanno verso una fine annunciata, il massacro del luglio 1995, ragazzini, uomini e vecchi uccisi in massa e seppelliti in fosse comuni.

Quando è uscito il film nel 2020 erano appena stati seppelliti gli ultimi nove corpi ritrovati oltre ai settemila, ricordati in una scena austera e toccante che assume il valore di grande cerimonia funebre.