«Trenta giorni prima che scada il termine, il presidente della camera dei deputati convoca in seduta comune il parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica». Chi, soprattutto Salvini e Renzi, continua a ripetere che «del nuovo presidente della Repubblica parliamo a febbraio» probabilmente non ricorda l’articolo 85 della Costituzione o ha fatto male i calcoli. Sergio Mattarella ha giurato il 3 febbraio 2015 – «La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione» – dunque le votazioni per scegliere il nuovo presidente cominceranno prima della prossima Epifania.

Il blocco che si presenta più omogeneo all’appuntamento è il centrodestra ed è anche quello più numeroso. Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e satelliti possono contare su (uno più, uno meno) 450 grandi elettori, considerato che arriverà a Roma sotto le loro bandiere la gran parte dei delegati regionali (38 su 58). Comunque non bastano. Il collegio elettorale del tredicesimo presidente della Repubblica sarà di 1009 componenti. Le maggioranze che interessano per l’elezione sono due, quella dei due terzi per le prime tre votazioni (673 voti) e la maggioranza assoluta (505 voti) per le successive. Al centrodestra dunque mancano più di 50 voti, oltre all’ovvia considerazione che per eleggere un presidente della Repubblica bisogna sempre cercare un consenso più largo di quello di una sola parte politica. Avere in tasca i voti per poter fare da soli, però, è sempre garanzia di una trattativa più semplice. La minaccia di procedere senza accordi è scattata effettivamente solo tre volte nella 75ennale storia dei presidenti della Repubblica e l’ultima nel 2006 per il primo mandato di Giorgio Napolitano.

Questa volta neanche la minaccia regge e il centrodestra dovrà necessariamente partecipare a un accordo. Anche nel caso riuscisse a mantenersi unito, eventualità probabile ma non certa perché in questa partita le ambizioni non corrispondono alle reali possibilità. La geografia interna del centrodestra, infatti, è destinata a cambiare parecchio ma solo quando si voterà per il prossimo parlamento. Per il momento Forza Italia nelle camere in seduta riunita vale ancora più del doppio di Fratelli d’Italia e un presidente si elegge con i grandi elettori, non con i sondaggi.

Si intende che l’accordo al quale bisognerà cominciare a lavorare dovrà essere sufficientemente ampio, a Salvini, Berlusconi e Meloni non basterà aggiungere ai loro voti i pochi che mancano alla maggioranza assoluta. Un paio di giorni fa Renzi ha voluto evocare questo scenario minimale (con la formula retorica della negazione) dando per possibile una soluzione centrodestra più Italia viva, ma sbagliando di nuovo i calcoli (i renziani in parlamento non sono più di 45).

Senza una soluzione a portata di mano neanche per il blocco più omogeneo, è chiaro allora che la corsa per il Quirinale avrebbe bisogno di capi partito capaci di un pensiero strategico e di proposte inclusive. Ma non si vedono, ragione per cui la partita è in mano proprio ai due “papabili” più accreditati, al tempo stesso registi e attori protagonisti. L’esito dipenderà quasi esclusivamente dalle loro scelte.

Sergio Mattarella ha fatto capire in tutti i modi di non essere disposto a un reincarico. Anzi, lo ha proprio detto quando è andato a recuperare un pensiero di Antonio Segni (non precisamente il capo dello Stato più citato) per sostenere l’opportunità della «non immediata rieleggibilità» del presidente della Repubblica. Il precedente Napolitano (rieletto per un secondo mandato nel 2013, caso unico) vale al contrario, nel senso che un’immediata conferma di quell’ipotesi eccezionale finirebbe col modificare i connotati dell’istituzione presidenziale. Durante tutto il suo mandato Sergio Mattarella ha fatto proprio l’opposto: è stato ben attento a preservare il ruolo del Quirinale, senza strappi che potessero condizionarne la futura interpretazione.

Il discorso potrebbe chiudersi qui, malgrado sia del tutto evidente che la conferma di Mattarella al Colle costituirebbe l’unico scenario di stabilità garantita, mantenendo Draghi a palazzo Chigi fino alle elezioni del 2023 e (chissà) conservandogli il posto più elevato per allora. Ma un’altra considerazione si impone, più forte anche del pressing asfissiante al quale è sottoposto il presidente perché cambi idea e accetti di restare. Perché se c’è un momento in cui un reincarico è giustificabile è proprio questo. Lo è per ragioni istituzionali, non politiche come sono tutte quelle che insistono sulla stabilità e che dunque sono poco potabili per una figura di garanzia.

Per effetto dell’allegro taglio dei parlamentari deciso nel 2019 (e confermato nel referendum), infatti, il collegio elettorale che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica sarà rivoluzionato dopo appena un anno. Il lungo mandato settennale è destinato a coprire ben tre legislature (l’attuale, quella eletta nel 2023 e la successiva), due delle quali con un assetto costituzionale delle camere diverso da quello che ha determinato la nomina del presidente. Una legge costituzionale (Fornaro) in via di approvazione ridurrà persino il numero dei delegati regionali; le premesse perché un capo dello stato con una prospettiva lunga sia scelto dal nuovo collegio ridotto di 626 grandi elettori e non da quello a scadenza di 1009 ci sono tutte.

Dovrebbe trattarsi però di una soluzione tutta giocata sul piano dello scrupolo costituzionale, al riparo dalle più aspre divisioni politiche. Possibile dunque solo se l’ipotesi Mattarella bis non determini l’immediata formazione di due schieramenti, i favorevoli e i contrari. E impossibile se lo schieramento dei contrari dovesse rivelarsi più nutrito del previsto, composto non dalla sola Giorgia Meloni ma anche da Giuseppe Conte nella convinzione che al (suo) nuovo corso nel Movimento convengono le elezioni anticipate.

Mario Draghi al Quirinale è certamente la soluzione più favorevole per chi punta al voto politico nel 2022. Cioè quando l’opera attorno al Piano di ripresa e resilienza sarà in pieno svolgimento. In questo caso la nuova stabilità italiana che i poteri politici e finanziari internazionali esaltano (vedi il Financial Times ieri) dovrebbe basarsi sul trasloco al superiore incarico del suo garante. E sull’affidamento della guida del governo a una personalità di fiducia del nuovo capo dello stato, con una sorta di incarico anticipato. Naturalmente il presidente del Consiglio erede incaricato dovrebbe guadagnarsi la fiducia del parlamento e qui l’asino è pronto a cascare. Ma se Draghi si facesse convincere da questa soluzione è difficile immaginare che l’ampia maggioranza che lo sostiene a palazzo Chigi non lo sostenga anche per l’elezione al Quirinale. Si compirebbe in questo caso una riforma costituzionale di fatto. Con l’autorità titolare del controllo sul grande piano esecutivo – (il Pnrr), capace da solo di assorbire la gran parte degli sforzi del governo – insediata al palazzo del Quirinale. E un suo incaricato a palazzo Chigi. Il semipresidenzialismo tra noi.