Per la prima volta da quando dimora a palazzo Chigi, Renzi deve camminare sul filo senza rete, e ora lo sa. Fino a due giorni fa si era illuso di poter ancora disporre della protezione, preziosissima, di Giorgio Napolitano. Era arrivato al colloquio di mercoledì sul Colle convinto di poter convincere l’inquilino a posticipare l’addio di qualche mese, fino a marzo. Poche settimane sul calendario. Politicamente, un’eternità.
Il rinvio di quelle dimissioni gli avrebbe permesso di chiudere la partita sulla riforma elettorale potendo minacciare Berlusconi con lo spauracchio di un presidente a lui inviso. Renzi avrebbe anche avuto a disposizione un alibi per chiedere di procedere in fretta, essendo doveroso «ringraziare» re Giorgio per l’ennesimo sacrificio offrendogli come benservito la riforma elettorale. Inoltre, pur essendo nota l’indisponibilità del quasi ex presidente a sciogliere le camere, una sua permanenza «nel pieno delle funzioni» avrebbe comunque autorizzato il premier a ventilare l’extrema ratio del ricorso alle urne. A fronte di una crisi e della conclamata impossibilità di altre soluzioni, persino per re Giorgio sarebbe stato difficile negare lo scioglimento.
Napolitano ha respinto il postulante. Non solo a rinviare non ci pensa per niente, ma se dovesse cambiare idea sarebbe casomai per anticipare l’atteso annuncio a metà dicembre. E lo farebbe ove subodorasse l’eventualità di un colpo di mano sul jobs act al Senato, ultima possibilità per far saltare il banco prima che diventi troppo tardi per qualsiasi miraggio elettorale. Renzi dovrà vedersela senza la protezione del presidentissimo.

La seconda rete, il Nazareno, sulla carta esiste ancora, nella realtà no. Il patto tra Berlusconi e il suo nemico prediletto doveva garantire due passaggi fondamentali, la legge elettorale e la nomina del nuovo presidente, e uno puramente propagandistico, l’abolizione del Senato. L’ultimo capitolo arriverà probabilmente in porto senza scossoni, ma serve solo a farsi belli in tv. Gli altri due sono in alto mare, e per due distinte ragioni.

La prima è che se Berlusconi proclama ai quattro venti che quell’accordo è vivo e vegeto, è anche vero che subito dopo, a mezza bocca, aggiunge che allude alla riforma del Senato e alla disponibilità a concorrere a quella elettorale. Quanto a quest’ultima, però, non c’è alcun accordo reale, né nel merito né sui tempi. Il capo dei senatori Romani, proprio ieri, ha affermato che se il giovanotto continua ad avere tanta fretta è segno che vuole votare. Per rassicurare gli azzurri, Renzi si prepara a offrire la «clausola» Calderoli, l’obbligo di far entrare in vigore l’Italicum solo una volta completata la riforma del Senato. Ma non è detto che basti, sia perché Berlusconi vuole rinviare l’ultima parola sulla legge elettorale a dopo l’elezione del nuovo presidente, sia perché sul premio di lista è molto meno convinto di quanto non faccia apparire. Neppure sul nome del successore di Napolitano i due sono d’accordo. Un candidato che piaccia a entrambi al momento non c’è, ma soprattutto Berlusconi insiste per un capo dello Stato che metta ai primi posti della sua agenda la «restituzione dell’agibilità politica» al perseguitato di Arcore. Un presidente in pectore che si impegni a graziare più o meno seduta stante il condannatissimo proprio non è facile trovarlo, né farlo votare.

Sin qui l’accordo tra i due capi, e già non è una passeggiata. Se poi si guarda alle truppe, le cose peggiorano drasticamente. Ieri Fitto ha riunito la sua «minoranza» a Roma, in un’iniziativa pubblica. C’erano 36 parlamentari, ma il plotone dei malcontenti è più folto: metà dei gruppi, a essere ottimisti. Ai quali si sono aggiunti un certo numero di ex notabili Pdl, da Storace ad Andrea Ronchi. Segno che Fitto mira a costituire una destra post-berlusconiana distinta e competitiva con quella di Salvini. I diktat di Arcore, stavolta, non ridurranno all’obbedienza né lui né molti dei ribelli.

Sul fronte Pd la minoranza è uscita rafforzata e motivata dalle regionali. La sortita sul jobs act alla Camera è stata eloquente, e tanto minacciosa per il passaggio al Senato che l’ex sindaco si avvia a mettere quella fiducia che aveva deciso di evitare.
Anche con loro Renzi dovrà trattare, sia sulla legge elettorale che sul Colle. Già sa di dover concedere qualcosa sul rapporto proporzionale tra nominati ed eletti con le preferenze, al momento sbilanciatissimo a favore dei primi, ma non basterà e l’elezione del presidente rischia di rivelarsi un calvario. Con le spalle coperte da Napolitano e dal Nazareno Renzi ha avuto sinora vita facile. Nei prossimi mesi dovrà cavarsela da solo.