Tra qualche settimana il conclave dei rappresentanti del popolo italiano tornerà a riunirsi per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Sui giornali se ne scrive ogni giorno ma difficilmente capita d’imbattersi in considerazioni che esulino dal puro riferimento all’intreccio delle partite politiche in corso, quasi non vi fosse altro interesse che quello di valutare al meglio le forze in campo per prevedere l’esito dell’elezione e, se possibile, influenzarlo. Un gioco di specchi in cui il riferimento alla realtà culturale, sociale e morale del Paese non ha pressoché alcun ruolo. Non è comunque questo a preoccupare i «grandi elettori», gli stessi che due anni fa non si sono fatti scrupolo di annullare la partita pur di non veder compromessi interessi e calcoli del tutto estranei all’esercizio del bene pubblico. Eppure mai come ora avremmo bisogno che al vertice della cosa pubblica ci fosse una persona consapevole dell’urgenza e della rischiosità della situazione e insieme capace di renderne persuaso il Paese.

Non saprei prevedere cosa succederebbe se l’elezione fosse a suffragio universale, ma in tal caso spererei che una maggioranza di cittadini riesca a sottrarsi alla ripetizione dell’identico scegliendo chi potrebbe rappresentare un nuovo inizio. Perché di questo abbiamo urgente bisogno. Non di un cosiddetto tecnico super partes o di un politico accomodante verso questa o quella parte; né basterebbe una personalità di alto profilo istituzionale; ci occorre qualcuno in grado, per propria virtù, d’ispirare le forze migliori e d’infondere nella sfera pubblica un respiro ampio invece della sensazione di soffocamento che sempre più impedisce la libertà di movimento e perciò la possibilità stessa dell’azione.

Ma non è questo che vuole l’attuale classe politica nella sua grande maggioranza; ha bisogno di un paese il più possibile fermo, ripiegato su se stesso, timoroso del futuro, indotto perciò a confidare nel movimento frenetico quanto apparente del governo.

Non dunque un’azione di stimolo a prendere coscienza della situazione, a cercare soluzioni in proprio, a confrontarsi a tutti i livelli, a trovare punti di equilibrio tra interessi contrastanti. E questo non perché guidata da intenti politici perversi, almeno non per lo più, ma essenzialmente per incapacità oramai congenita a pensare alla politica come a un agire in comune, senza di che è impossibile capire come stanno effettivamente le cose e avvertire l’urgenza di un atto coraggioso di discontinuità. Se è vero, come pensava Lessing, che è compito degli uomini saggi «scuotere i pilastri delle verità più accettate», all’uomo politico, ci ricorda Jaspers, compete «dire semplicemente quel che va detto» e insieme «infondere negli altri coraggio perché le sue parole, i suoi gesti e le sue azioni sono così convincenti che ciascuno compie uno sforzo maggiore ed è più disponibile ad accogliere l’asprezza della verità» e a farvi fronte.

È del tutto improbabile che ci capiti una tale fortuna, ma già sentirne il bisogno è un piccolo prezioso inizio.
* Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Firenze