È morto nei giorni scorsi in una clinica di Milano Quinto Bonazzola, uno dei dirigenti del Fronte della gioventù durante la resistenza, sindacalista della Fiom, giornalista e polemista dell’Unità, dirigente del Pci. Ma questo elenco di funzioni non dice niente della sua straordinaria personalità umana, modello di rigore, di disinteresse e di limpidezza spinta sino al rifiuto della più piccola concessione a quel tanto di adattamento alla moralità comune che implica sovente compromessi con la propria coscienza.

Una personalità, contemporaneamente, sempre avversa a ogni forma di schematismo e di dogmaticità. Allievo di Antonio Banfi, del suo razionalismo critico e del suo problematismo, ingegno acuto e sottile (chi scrive questo breve ricordo ha conservato a lungo un testo di Witgensein con le sue illuminanti note manoscritte in margine), abbandonò gli studi alla vigilia della laurea per immergersi a tempo pieno nella resistenza prima e nell’attività di partito, sindacale e giornalistica poi, come accadde ad altri meno dotati di lui. Per Quinto non vennero mai meno quelle regole non scritte che avevano contribuito a salvaguardare il Pci nella clandestinità, nella resistenza e oltre, e cioè il ripudio di quello che si chiamava il «personalismo» (parola con cui si intendeva il prevalere dell’io sul noi), il familismo, lo spirito di gruppo. Dunque, un costume di comunista compiuto, come lo si intendeva allora. Ma da lui – che per me con pochi anni di meno era già un «vecchio compagno» – ho sentito dire per la prima volta il dubbio più radicale sull’Unione sovietica.

Nell’autunno del 44 in una soffitta più che gelida dalle parti di via Canova in Milano, lui sfuggito alla cattura dei fascisti , io al carcere, mentre aspettavamo chi doveva venire a dirci i nostri compiti futuri – e venne poi Eugenio Curiel – non avevamo altro da fare che discutere. E non ho mai dimenticato come Quinto, in una di queste discussioni sui processi staliniani, definì la questione permanente del modello sovietico. «È da vedere sempre, disse, se il difetto è nel sistema o del sistema». Era un dubbio inedito da ascoltare da un comunista nel tempo del massimo prestigio dell’Urss – che aveva vinto a Stalingrado e avanzava ovunque. La vicenda storica ha risolto la questione. Ma la vita di quelli che, come Quinto, hanno voluto con la loro esistenza testimoniare per un altro comunismo non cessa di essere meno importante da ricordare, soprattutto in un momento di avvilimento della politica come quello che stiamo passando.