Quando si parla di Young British Artists, vengono in mente Damien Hirst, Tracey Emin e Jenny Saville. Ma al gruppo apparteneva un artista che ne sviluppa l’estetica repellente, fondata sulle pratiche del disgusto, in un percorso audace e privo di sensazionalismi. È Marc Quinn.
A Venezia la Fondazione Giorgio Cini, sull’Isola di San Giorgio Maggiore, gli dedica una personale con più di cinquanta opere, tra cui quindici inedite (visitabile fino al 29 settembre). Quinn ha cominciato dalle manipolazioni culturali della natura, indagando l’alchimia delle sostanze: calchi della sua testa in sangue congelato (Self, 1991), nigredo che si esterna nel coagulo artificiale del tessuto connettivo. Oggi, rende i limiti della scienza soglie dell’arte ed esplora il senso comune sui processi vitali. Enfatizza corporeità abominevoli, «difettose» o ibride, per questionare i concetti di «normalità» nel sociale e di «canone» nelle arti.
L’allestimento della mostra, a cura di Germano Celant, è d’impatto. Chi prende il battello verso San Marco dalla circolare esterna scorge a distanza, sulla piazzetta della basilica di San Giorgio, la gigantesca statua di una donna gravida seduta, monca delle braccia e con le gambe corte. Breath (2012), 11 metri di altezza, è la variante in poliestere indaco della Alison Lapper Pregnant (2005), già installata da Quinn a Trafalgar Square. Un’abominevole bambola gonfiabile sostituisce la scultura, in marmo di Carrara, che ritraeva l’artista simbolo delle Paraolimpiadi del 2012. Si smorzano i toni dell’idealizzazione: Alison Lapper, fuori dal contesto dei «Giochi», è il simulacro di un giudizio in balia del vento. L’opinione pubblica, normalmente, non abilita la malformazione.
Figuriamoci l’accademia, disposta ad accogliere il deforme, dopo Francis Bacon (Deleuze), e l’informe (Bataille; Krauss), ma restia ad assumere positivamente l’anomalia anatomica. In mostra tre statue in marmo bianco a grandezza naturale sono atleti con handicap, vincitori di medaglie: Peter Hull (1999), nuotatore senza arti; Jamie Gillespie (1999), corridore zoppo; Stuart Penn (2000), pugile con un braccio e una gamba amputati. Altre, in posa, presentano artisti o professionisti disabili: Catherine Long (2000), Tom Yendell (2000), Helen Smith (2000), Alexandra Westmoquette (2000). Invece Chelsea Charms (2010), con il suo seno sproporzionato, e Thomas Beatie (2009), l’uomo capace di concepire, sono un prodotto orrido della chirurgia. Quinn li modella tutti nello stile neoclassico più vicino al Canova, sfruttando la retorica dell’anacronismo per irridere a una nozione superata di bellezza. Perché escluderli, se la percezione culturale ammette, da sempre, l’atipicità di esemplari mutili come la Venere di Milo?
Alla base di queste riflessioni c’è l’esigenza di mappare territori della vita, secondo la definizione che la scienza dà di «vita»: movimento, dai microrganismi ai massimi sistemi. L’intatto è un principio illusorio. Nella sala centrale impressionano gli oli su tela della serie The Eye of History (2012-13). Sono dipinti di formato rotondo, del diametro di 280 cm, che accoppiano, per contrasto cromatico, la raffigurazione del globo oculare con il fermo immagine di fasi diacroniche del pianeta Terra, da angolazioni diverse e preconizzandone la fine: Antipodes (2012), Bering Strait (2012), End of the Ice Age (2013), Equatorial Perspective (2013), The Americas (2013), Solid, Liquid, Gas (Slow Dissolve) (2013).
Ma la legge del mutamento compromette soprattutto l’integrità del corpo, struttura e involucro. A livello dei ritmi di trasformazione, si stabiliscono analogie fra la pittura di fette di carne animale e le venature del marmo (Flesh Painting, On Marble, 2012) o la calligrafia (Flesh Painting, on Calligraphy, 2012). Un sistema di pelle può variare la propria combinazione mereologica per prenderne in carico e tradurne altri. Così, in The Way of All Flesh (2013), la carne rossa cruda marmorizzata su cui si sdraia il corpo nudo di Lara Stone, incinta, diventa metonimia – il contenente per il contenuto – dei suoi vasi sanguigni, vene e arterie. Due facce dello stesso dispositivo, «rivoltanti»: informatori del fuori e del dentro, della tenuta e del flusso, dell’essere e del divenire.
Con l’utilizzo di strumenti di indagine scientifica, l’artista dà poi rilievo allo sviluppo prenatale umano. Lungo la discesa che conduce dallo squero dell’isola, ex cantiere navale, verso l’acqua, Quinn installa dieci monumentali sculture di marmo color rosa carne (Evolution, 2005-07). I blocchi aspettualizzano feti di varie dimensioni, come risultato della trasferenza in pietra e dell’ingrandimento di ecografie.
L’intelligenza della natura ha un ultimo corrispettivo artistico in un ciclo esposto sul molo di San Giorgio, in riva alla laguna (The Archaeology of Art, 2013). Si tratta di cinque colossali conchiglie in bronzo dorato, «stampate» ad alta definizione e fra le riproduzioni 3D più grandi al mondo. Sculture ottenute fornendo al computer il codice biologico che ha generato gli originali. È la prova dell’interdipendenza fra reale e virtuale: le dinamiche della fusis emergono oggi in simbiosi con il «sublime tecnologico».
Fatti o interpretazioni? Quinn mutua in questo caso non le morfologie della natura, ma gli stessi funzionamenti. Il dna digitale delle conchiglie – sculture-guscio miste di inorganico e organico – è un punto d’arrivo per pensare, retrospettivamente, che l’arte attinge ai processi di gestazione e decomposizione del vivente. Sono la sua «archeologia».