C’è stato un tempo in cui la decisione se spedire o meno un militare all’estero era preceduta e accompagnata da un dibattito pubblico accesso ed accurato, con le forze politiche che animavano la discussione tra di loro e al loro interno, con una società civile che chiedeva conto di quelle scelte. Oggi assistiamo ad una campagna elettorale che volutamente omette di sottoporre alla pubblica opinione questi decisivi punti programmatici, nonostante l’Italia abbia missioni militari in zone di guerra come Iraq, Afghanistan e Libia e si appresti ad inviare un proprio contingente in Niger. Il 15 febbraio 2003 la manifestazione globale contro la guerra all’Iraq rappresentò il punto più alto di quel dibattito pubblico. Appassionò milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Si fece forza e punto di vista collettivo, chiedendo ai potenti della terra, per una volta, di rinunciare alla guerra e di dare una possibilità alla pace. Non aver percorso quella strada, indicata da mani che intrecciavano religioni, culture, pensieri politici superando barriere e frontiere, ha rappresentato un crimine contro l’umanità.

Dalla guerra all’Iraq in poi il mondo è stato più insicuro. La guerra ha continuato a espandersi a macchia d’olio.

Il terrorismo ha trovato fertile alimento nella disperazione e frustrazione dei popoli che quella guerra hanno subito. Eppure quelle classi dirigenti che con la menzogna delle armi di distruzione di massa hanno precipitato il mondo nell’instabilità attuale, non sono ancora state chiamate a rispondere dei loro misfatti.
Così una invasione militare come quella effettuata in Afghanistan non vede la fine ed ha rappresentato una vendetta collettiva contro un popolo con il pretesto dell’attentato al World Trade Center. Daesh e i Talebani si contendono oggi larga parte del Paese. Per l’osservatorio Mile€x, l’Italia è complice di questa disfatta: il costo ufficiale delle missioni militari in Afghanistan a partire dal novembre 2001 è di 6,5 miliardi di euro, vale a dire oltre un milione di euro al giorno in media.

Se si aggiungono i costi extra si arriva ad a oltre 7,8 miliardi in 16 anni, a fronte di appena 280 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile. Invece sulla missione in Iraq, 14 anni di impegno militare italiano in questo Paese sono costati al contribuente italiano circa 2,7 miliardi di euro, a fronte di una spesa di 400 milioni per iniziative di cooperazione e assistenza civile. Un rapporto di 1 a 7 emblematico della scelta politica nettamente militarista fatta dai diversi governi italiani, nella corsa per mostrarsi tra i più “volenterosi” delle varie coalizioni militari a guida statunitense intervenute in Mesopotamia. Lo stanziamento per le missioni 2018, approvato dal Parlamento a Camere sciolte il 17 gennaio, ammonta a 1,28 miliardi di euro, per l’impiego di quasi 8.000 uomini, 1.400 mezzi terrestri, una sessantina di mezzi aerei e una ventina navali in decine di missioni attive in 25 Paesi, nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. Mentre già si tinge di giallo la nuova missione in Niger di contenimento dei flussi migratori – qualcuno ha confuso i desideri della Francia, potenza coloniale, con la richiesta delle autorità del Niger – noi dell’associazione Un ponte per… vogliamo riaprire la discussione sulla presenza militare italiana nel mondo. Ne parleremo a Roma il 16 febbraio (appuntamento allo Scup alle 18:00, via della stazione Tuscolana 84) con un delegazione da Baghdad del Forum Sociale Iracheno.

Perché il nostro movimento pacifista ha bisogno di nutrirsi e ri-legittimarsi confrontandosi con chi continua a lottare – e a vincere importanti battaglie sociali, ad esempio per i diritti dei lavoratori e delle donne – in un contesto di guerra permanente e chiede un altro impegno all’Italia: cooperazione e interventi civili di pace, non più armi e missioni di guerra. Vi aspettiamo.
* Un ponte per…