>«È un momento curioso quello che attraversiamo. Sai che impressione ho? Sta per scoppiare il dopo guerra. Finora è stato il limbo. Ora ci avviciniamo. Non potrei spiegare altrimenti questo sgomento indefinibile che ha preso un po’ tutti. Proprio tutti. E che non è né stanchezza, né preludio di violenza. Amore mio qui scoppia il dopoguerra. Speriamo che duri poco». Sfogliando le centinaia di lettere che Suso Cecchi d’Amico scrive al marito ammalato e lontano («Suso a Lele. Lettere (dicembre 1945-marzo 1947»), a cura di Silvia e Masolino d’Amico, Bompiani, pp. 600, euro 22.00), la tentazione è di leggerle come il romanzo epistolare della borghesia romana con i birignao, i tic, i vezzeggiativi del lessico familiare. Anche perché i Cecchi-d’Amico – una dinastia con albero genealogico a portata di mano – sono un osservatorio privilegiato con casa Cecchi in Corso d’Italia 11, dove alla domenica sfilano i letterati amici di Emilio e di Leonetta, e il palazzo a Via Nazionale 69, dove abitano il suocerone Silvio d’Amico con la suocerona Elsa, in parte venduto per fronteggiare le traversie finanziarie del figlio Marcello, estroso ma sfortunato produttore cinematografico, quasi a confermare paradossalmente la diffidenza del grande critico teatrale nei confronti della decima musa.
Nel diario di un mondo che cambia – in cui si parla tanto di soldi anche perché in giro ce ne sono così pochi – non manca il cinema dal momento che la sceneggiatrice è alle sue prime prove con «Mio figlio professore» di Renato Castellani, «Vivere in pace» di Luigi Zampa, «Il delitto di Giovanni Episcopo» di Alberto Lattuada. La più disgraziata delle sceneggiature è quella di «Roma città libera», scritta con Ennio Flaiano che cerca di salvare lo spirito alla René Clair del soggettino di partenza e Marcello Pagliero che ce la mette tutta a appiattirlo con il suo greve naturalismo alla Jean Gabin. Il partner ideale è Flaiano, tanto che più tardi penseranno di aprire addirittura un piccolo negozio artigianale: «Bottega della sceneggiatura. Lavori su misura, Riparazioni espresse, Scalette, Gags, Rifiniture, Adattamenti». Il rapporto privilegiato con Luchino Visconti – «il conte mio» per il quale traduce le pièces «Quinta colonna» di Hemingway e «La via del tabacco» di Caldwell – è ancora al di là da venire e comincerà soltanto con «Bellissima».
Quando in Via della Croce incontra Mario Soldati, «buffone, matto, commediante, abbietto ma simpatico e pieno di vita», che sta girando una scena di Daniele Cortis, per poco non scoppiano a ridere pensando al caso provocato dalla avventata decisione del regista di scritturare Sarah Churchill, la figlia di Winston, una «vecchia squadrasciata con un sedere che non finisce più», per scoprire troppo tardi che è un’attrice mediocre poco amata dallo stesso pubblico inglese.
Se il rapporto perfetto è quello con Castellani, meno idilliaca si rivela la coesistenza con Lattuada, soprattutto quando deve riaggiustare le scene rovinate dal suo «maledetto gustaccio». Meglio non parlare poi della moglie Carla Del Poggio e della sua voce atteggiata: insomma «una coppia senza fluido di simpatia tra di loro». Anche se poi si è ricreduta, il primo giudizio su Zampa sembra essere senza appello: «Un angelico ingenuo uomo mediocre che ci mette una settimana a capire una cosa – la capisce quando uno stanco di spiegargliela se n’è disamorato».
Tra i registi salverebbe solo Vittorio De Sica che «non confonde regia col lusso, esibizionismo e ducismo». Con Aldo Fabrizi, nonostante in «Vivere in pace» si comporti da divo dei divi continuando a mettere bocca su ogni battuta: «Questa sì, questa no», va abbastanza d’accordo. Ma sul set di «Il delitto di Giovanni Episcopo» quasi si ricrede per la crudele brutalità con cui l’attore tratta il figlio di suo cugino, un bambino pieno di paura, per fargli fare le due o tre espressioni richieste dal copione.
Come spettatrice, ammira «L’orgoglio degli Amberson» di Welles e «Giorni perduti» di Wilder, che però le sembra troppo ossessivo. Applausi a scena aperta per «La leggenda di Robin Hood», che fa impazzire i figli. Quando raduna gli oppressi e li fa giurare di schierarsi con Riccardo Cuor di Leone, chiedendo «Lo giurate?», Silvia schizza in piedi sulla poltrona e entusiasta grida: «Lo giuriamo!». Nel frattempo comincia a lavorare all’«Onorevole Angelina», andando per borgate a farsi raccontare l’occupazione delle case durante l’alluvione.