Non si smentisce Mario Martone, e con Qui rido io, presentato ieri a Venezia in concorso (e da domani nelle sale), ci dà un film che sicuramente diverte (visto che personaggio protagonista è Eduardo Scarpetta) ma commuove anche, e soprattutto racconta e spiega un altro pezzo di storia d’Italia. Difficile azzardarne l’appartenenza a un genere, perché mentre racconta il personaggio, e l’intero teatro da lui elaborato (e da noi spettatori ereditato con grande divertimento e piacere reciproco), l’autore in realtà dipana i fili storico-narrativi che stende da tempo. In particolare, per limitarsi ai primi titoli che vengono in mente, Noi credevamo e Capri revolution, per non parlare delle opere liriche che ha realizzato e che svelano in quel penultimo passaggio di secolo, dall’otto al novecento, nodi cruciali di un paese e di una cultura che crescono e maturano quasi a dispetto della politica e dei poteri (borghesi come polizieschi) che vorrebbero tenerli fermi.

Ma Qui rido io non è certo un film «ideologico», anzi è un ricco e bel racconto costruito con sapienza drammaturgica (sceneggiatura dello stesso regista e di Ippolita Di Majo) attorno alla figura di quel geniale teatrante, che a sua volta Toni Servillo costruisce pezzo per pezzo, faccia per faccia verrebbe da dire, con una fisicità ostinata e battagliera che mantiene la teatralità al centro del film.

Scarpetta, con le sue facce, i suoi vestiti e i suoi respiri è una sorta di compasso che allargando il suo raggio svela altri pezzi di società, dall’organizzazione familiare attorno al patriarca superfecondo, al mercato e all’importanza del «botteghino» microcapitalista in quell’ordine sociale che si va stabilizzando, e fino a funzione e motivazioni degli intellettuali, tutti di buon nome e fama ma schierati tutti per il valore stabilito dal conformismo politico (ovvero D’Annunzio santificato prima ancora del fascismo incombente).

Insomma in quella famigliona che ha la ragione sociale di una compagnia teatrale, tutto avviene secondo le regole della teatralità, e del suo rendimento. O anche viceversa. Scarpetta fu colui che tolse sul palcoscenico la ragion d’essere a Pulcinella, inventando la figura di Felice Sciosciammocca, la maschera nuova dello sfigato solo in apparenza, in realtà più furbo dei borghesotti che guidano la società, e può prosperare fino a governare lui la risata (e quindi il botteghino).

Fino al celeberrimo numero di Miseria e nobiltà: gli spaghetti di cui i commensali si abboffano in piedi (e in tasca) sulla tavola, che Martone ci dà come nel film di Totò (e un elemento di emozione può venire anche dal fatto che quelle scene, come altre di ambiente teatrale, abbiano avuto come location il glorioso teatro Valle di Roma, attualmente morto e sepolto, letteralmente sotto la polvere).

Quella famiglia larghissima (una sorta di gineceo orientale, o una casa rovesciata di Bernarda Alba) comprende tutti gli amori (e gli amorazzi) dell’impenitente Scarpetta, che di tutte le sue donne si cura, sia moglie come le amanti fisse e quelle occasionali, ognuna con la propria figliolanza. E con tutti i problemi, o le virtù, che ciascuno dei ragazzi dimostra: il gruppo dei futuri gloriosi De Filippo, si esplicita già come il dotato Eduardo che pratica già la scrittura, l’autorevole sorella Titina e il più problematico e combattuto Peppino. A loro Martone dedica il finale, riconoscendone la forza dell’eredità paterna, che pure mai volle dar loro il proprio nome (e facendoci intuire l’origine di una ventura Filumena Marturano…).

MOLTO INCISIVO è l’affondo che viene portato nel film contro gli intellettuali e i critici che a loro tempo si schierarono contro Scarpetta per il tentativo teatralissimo di mettere in parodia la dannunziana Figlia di Iorio, preparandone una versione al maschile. Insorse il «vate», e attorno a lui si strinsero tutti i bei nomi dell’intellettualità partenopea, da Salvatore Di Giacomo a Libero Bovio.

Possibilista si dichiarò solo Benedetto Croce, ma a vincere quella che fu la prima causa giudiziaria in difesa del diritto d’autore fu l’autodifesa appassionata e in prima persona dello stesso Scarpetta (ed è un momento di particolare exploit da parte di Servillo, che per altro lungo tutto il film è l’elemento di confluenza ed equilibrio di ogni bravura.

Il livello altissimo della recitazione, in un film che si può ben dire «di massa», assume anche un altro particolare valore. Con il cast fantastico che dirige, Martone ha compiuto un’operazione non secondaria, né ininfluente, per la scena napoletana: ha riunito sotto un unico tetto, portandoli a performance fuori della norma, esponenti di tutte le «famiglie» del teatro a Napoli.

Vi è, attorno a Servillo/Scarpetta una sorta di plenum, che è anche una «gara» di bravura dentro un ensemble così eterogeneo: da Maria Nazionale, regina del neomelodico, ad Antonia Truppo di scuola Cecchi, da Gianfelice Imparato a Iaia Forte, da Nello Mascia a Gigio Morra, e a decine di altri, spesso straordinari: Lino Musella muove impercettibilmente le labbra, per rendere esplicita la poca convinzione (o la strumentalità) di Croce schierato dalla parte di Scarpetta.

A FIANCO a tutta Napoli di scena, c’è anche uno sparuto gruppetto di origine «ronconiana» capeggiato da Paolo Pierobon, chiamato da Martone per dar corpo e stile alla scuola del Vate. Un sorriso molto «scarpettiano», in un film bello e denso, istruttivo e divertente, che segna per l’autore un punto di grande maturità, oltre a una inestimabile ricchezza di pensiero e di visioni.