Michaela, sedici anni, è una ragazza di origine rumene da poco arrivata in Italia, fa fatica ad esprimersi in italiano. I suoi compagni pensano che sia poco intelligente e tendono a isolarla, anche perché non si veste e non si comporta come loro. Ma la sua buona conoscenza della lingua inglese le consente di esprimere i propri pensieri e opinioni, e così comincia a essere presa in considerazione dai compagni. Adrian, anche lui sedicenne, è un ragazzo di origine polacca, da diversi anni in Italia, è molto timido, interviene raramente in classe ed è ansioso quando gli insegnanti gli fanno delle domande. Solo quando c’è lezione di inglese acquista sicurezza e prende la parola. Poi ci sono Rachid, che arriva dal Nord Africa e Ricardo, sudamericano, che si scambiano tra loro espressioni in inglese quando non vogliono farsi capire da alcuni professori. E Maria Soledad che comunica con la sua amica Martina attraverso frasi in inglese scritte sul diario e Sara, che attraverso la musica inglese riesce a esprimere la sua rabbia.

Sono alcuni degli studenti stranieri incontrati da un’insegnante di lingua e cultura inglese nella sua ventennale esperienza di insegnamento. Incontrati ma soprattutto «osservati», con lo sguardo partecipante e la lente dell’antropologa, che ora riunisce le sue ricerche in un volume originale e ricco di spunti per tutti gli insegnanti: Paola Giorgis, Diversi da sé, simili agli altri. L2, immaginazione e letteratura come pratiche di pedagogia interculturale (Cisu, pp. 267, euro 23,90). Ragazzi stranieri spaesati e in difficoltà con la lingua italiana ma accomunati dalla conoscenza dell’inglese, quasi una «terra di mezzo» tra differenti appartenenze linguistiche e culturali. Nel luogo incerto e liminale dell’adolescenza l’autrice esplora i tentativi di ridefinizione delle identità. e le relazioni tra gli allievi attraverso l’inglese, lingua-ponte.

Imparare a osservare e insegnare a osservare, scrive Giorgis, può produrre spiazzamenti e incertezze ma anche occasioni di nuove scoperte. Ma per diventare «esploratori di mondi possibili», la definizione è dell’antropologa Marianella Sclavi, servono alcuni strumenti, alcune abilità: l’osservazione, l’empatia, l’immaginazione e la letteratura, come insegna la filosofa americana Martha Nussbaum in Coltivare l’umanità: i classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea (Carocci).

Presenze altere

Il volume è uscito nella collana Etnografia dell’educazione (diretta da Francesca Gobbo, antropologa all’Università di Torino) che si caratterizza per ricerche capaci di osservare con empatia gli allievi, con disponibilità a sentirsi appunto esploratori di mondi possibili, dando importanza alle relazioni educative e all’immaginazione. Dovrebbero essere questi i ferri del mestiere di chi insegna, le attitudini da coltivare, mentre lo spirito del tempo che circola nella scuola italiana è quello di una «burocratizzazione della professione dell’insegnante unita – scrive Paola Goirgis – a una modernizzazione dell’insegnamento vista prevalentemente come rincorsa all’acquisto di costose apparecchiature tecnologiche». Tra gli ultimi volumi usciti, quello di Cecilia Costa, Amicizie interculturali. Etnografia della nuova Torino (Cisu, pp. 256, euro 16,90) che è una indagine sulle relazioni di amicizia tra ragazzi italiani e stranieri, nei luoghi di socialità e del tempo libero: i centri giovanili, gli oratori, i doposcuola, i luoghi d’incontro delle associazioni. L’autrice, anche lei nella duplice veste di insegnante e antropologa, nelle sue «note di campo» (uno degli strumenti dell’etnografo, insieme all’intervista e all’osservazione partecipante) registra le osservazioni dei ragazzi, e conclude dicendo che forse in questi luoghi, in queste relazioni di quotidiana amicizia, si intravede una convivenza possibile, una via per abitare la nuova città. Un terzo volume è quello di Giorgia Peano, Bambini rom, alunni rom. Un’etnografia della scuola (Cisu, pp. 160, euro 16,90) anche lei nella doppia veste di insegnante e antropologa, quasi una cifra stilistica che caratterizza gli autori della collana. Prima di scendere dai pulmini, prima di sedersi tra i banchi, i bambini rom – scrive Peano – abitano già la mente degli insegnanti, sono già «arrivati» nei documenti scolastici, hanno già messo in allarme l’organizzazione della scuola. Un’organizzazione «culturale» data per scontata, supposta come neutrale e quindi quasi mai sottoposta a esame, e che deve fronteggiare l’«alterità» per eccellenza, quella dei bambini rom.

Una ricerca di senso

L’indagine di Peano è non solo accurata, ma in alcuni momenti emozionante, ricca di annotazioni sulle parole dette e scritte, di adulti e bambini, sui silenzi, sulle relazioni in classe, sull’uso degli spazi e sui rituali scolastici, sul pulmino e sulla nonna rom, sul pulito e lo sporco, sulle pagelle e sulla vita nel campo, sullo scrivere poesie, sul diverso far di conto, sul plurilinguismo. Illuminanti le osservazioni sull’uso e sui comportamenti negli spazi «liminari», di confine, di passaggio, da parte dei bambini rom: l’entrata, l’uscita, il corridoio, lo spazio intorno alle macchinette del caffè, il laboratorio rom. Le scuole hanno confini, confini interni e confini esterni, come gli Stati. E sono a volte sorprendenti i capovolgimenti di prospettiva che ci offre questa ricerca: i bambini rom diventano un «evidenziatore» di modelli, pratiche, stili educativi, retoriche della nostra scuola.

Particolarmente interessanti, poi, le osservazioni sulle parole usate dagli insegnanti e dai documenti scolastici: alcuni per esempio si riferiscono ai bambini rom adottando un gergo burocratico politico, la «questione rom». La manomissione del linguaggio è così continua, soprattutto da parte delle istituzioni (ministeri, università, partiti) e così fatto di frasi vuote, di tecnicismi burocratici, di dichiarazioni pompose, da rendere evidente come sia necessario tornare ai «fondamentali», alla ricerca di senso, all’attenzione e alla cura delle relazioni: precisamente ciò fanno e cercano di segnalare gli autori di queste ricerche.