«In Messico è più pericoloso un presidente come Peña Nieto che un narcotrafficante come El Chapo Guzman. Il primo, governa una miscela perversa di omicidi e corruzione, il secondo è un burattino al servizio del potere di turno». Così dice al manifesto Anabel Hernandez, autrice del volume La terra dei Narcos, edito da Mondadori con prefazione di Roberto Saviano. Un’inchiesta sui “signori della droga”, iniziata quasi per caso da un’indagine sul lavoro minorile nelle piantagioni di cannabis, coca e oppio, dove i figli dei contadini vengono impiegati fin da piccoli. Per cinque anni poi, la giornalista ha seguito la traccia dei narcotrafficanti e dei loro protettori, poliziotti, politici e militari. Un intreccio che mina le istituzioni dall’interno e respinge nel sangue ogni tentativo di vero cambiamento. Oltre il dato specifico, il libro consente di riflettere su temi di più ampia gittata: si proietta, certo, sulla recente e drammatica realtà dei 43 studenti scomparsi nel Guerrero, ma evidenzia questioni strutturali e mostra la cecità di chi pensa di risolvere affidandosi a chi è parte del problema e non della soluzione. Così scrive Saviano: «Non è la mafia che si è trasformata in un’impresa capitalista, è avvenuto esattamente il contrario. È il capitalismo che si è mafiosizzato. Le regole del narcotraffico, raccontate da Anabel Hernandez, sono le regole dell’economia». Ma allora: meglio alimentare il circo dell’emergenza e dell’ “ordine pubblico” o battersi per un cambio sistemico che disinneschi il potere delle cosche mettendo al centro dei programmi casa, lavoro e cultura? Hernandez, che Reporters sans Frontières ha inserito “nella top 100 degli eroi dell’informazione nel mondo” è venuta a Roma per partecipare al Forum sulle mafie, che si è tenuto all’Auditorium. L’abbiamo incontrata durante una pausa del convegno.

Anabel Hernandez
Anabel Hernandez

La storia del narcotraffico è innervata a quella recente del Messico. Da dove si origina, a suo avviso, l’intreccio tra mafia e potere?

Sono problemi che iniziano negli anni ’70 e di cui oggi subiamo le conseguenze. Si comincia con l’alleanza tra le bande che controllano la produzione di cannabis, coca e oppio, e i governi locali. Questi ultimi intascano il denaro dei trafficanti e in cambio concedono il permesso di coltivare e di esportare sulle vie marittime dove al tempo del proibizionismo si praticava il contrabbando di alcol con gli Stati uniti. I campi delimitati dalle bandierine non vengono toccati dalle fumigazioni e il trasporto del raccolto viene anche scortato dalla polizia federale. Ma poi i cartelli diventano più potenti dello stato. Il punto di non ritorno è la vicenda Iran-Contras, la politica del governo Usa attuata dalla Cia negli anni ’80. Per sconfiggere il sandinismo in Nicaragua e fermare l’estensione del comunismo nella regione, Reagan finanzia il narcotraffico in Messico, la Cia crea dei mega cartelli, organizza le relazioni con quello di Medellin in Colombia. La vecchia piattaforma del traffico illegale si converte in una multinazionale del crimine: che ha in Messico il suo punto centrale e nel Centroamerica, dove i governi sono fragili (come Guatemala o Honduras), importanti succursali in piena attività. Dai porti messicani e dai laboratori clandestini, viene smistata l’anfetamina che va negli Stati uniti e in altre parti del mondo. Dietro la retorica della sicurezza e della lotta al narcotraffico, non c’è mai stata guerra alla droga, solo l’avanzata di altri interessi, militari e politici. La principale forza dei cartelli è la legalità. Il denaro transita nelle grandi banche internazionali, in primo luogo in quelle Usa. Tutti lo sanno, ma quando qualche inchiesta le individua, le banche ricevono al massimo una multa ridicola e nessuno va in carcere. L’ipocrisia dei governi è spaventosa e i media internazionali che raccontano i fatti di sangue senza indagarne le ragioni sono complici.

Alcuni paesi hanno legalizzato il consumo di droghe. È una strada percorribile in Messico?

È un tema interessante, di cui si discute spesso a livello internazionale. Io non credo sia una soluzione, al massimo un palliativo. In Messico, quando una cosa diventa legale, compare al suo interno un traffico illegale. Le faccio tre esempi. L’alcol ora si può comprare dappertutto, ma costa caro ed esiste un fiorente mercato di produzione pirata, artefatta e a basso prezzo in cui tutti possono acquistare una bottiglia a venti pesos di meno. Stessa cosa per il tabacco e per le sigarette di contrabbando. E poi il gioco. A un certo punto, l’allora presidente Vicente Fox ha legalizzato i casino, sperando di far pagare le tasse e ricavare introiti. Ora vi sono case da gioco dappertutto, e al loro interno prosperano traffici illegali di ogni tipo: dalla prostituzione infantile, alla droga, ecc. In alcuni stati come l’Olanda, che non producono marijuana ma che l’hanno legalizzata, circola una pastiglietta che si scioglie sulla lingua, costa poco e produce gli stessi effetti della marijuana. E nei luoghi in cui si esercita legalmente la prostituzione, si è diffuso il mercato illegale di quella infantile. I narcos trasformano tutto in business ed è quello che bisogna colpire: confiscare i conti delle grandi industrie del riciclaggio, arrestare banchieri, politici, governatori e magistrati collusi, cambiare il modello di gestione generale. Dopo si potrà discutere cosa conviene legalizzare. Io non penso che il corpo sia solo qualcosa che ci appartiene. In questa situazione, quando consumiamo droga, siamo complici di un certo sistema.

Esiste la possibilità di un profondo cambio di paradigma come chiedono ora i movimenti popolari in Messico?

Non sono ottimista: mafie politiche, industriali e narcotraffico sono tre poteri uniti e decisi a non permettere che si realizzi il sogno di una società diversa. L’uso ossessivo della forza pubblica, alimentata dalla cosiddetta guerra alla droga, serve a creare terrore e rassegnazione nella popolazione. Ma ora dalle proteste arriva un messaggio preciso: la misura è colma. I 43 studenti scomparsi a Iguala hanno fatto traboccare il vaso delle oltre 130mila persone desaparecidas che non facevano più effetto. Oggi, per la prima volta a manifestare non è quella parte di classe media che torna a casa al primo spavento, ma settori che non vogliono più tornare indietro. Manca, è vero, un’organizzazione che catalizzi la protesta e i sentimenti della società, perché nessuna forza politica ha più credibilità. I cartelli sono penetrati in tutti i partiti. Gli scandali, le migliaia di giornalisti e attivisti per i diritti umani ammazzati, le leggi liberticide di Peña Nieto che vuole imporre con la forza la realtà di uno stato assassino e corrotto, hanno però fatto tornare in mente qualcosa che la società sembrava aver dimenticato: la vera storia del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale, che ha governato per 71 anni, è stato sconfitto nel 2000 e poi è tornato al potere dopo 12 anni, con l’elezione di Nieto nel 2012.

Sono stati identificati i resti di uno dei 43 scomparsi, rinvenuti nella discarica di Cucula. E ora gli studenti chiedono di cercare nelle caserme militari. Che idea si è fatta del massacro di Iguala?

È un’inchiesta a cui sto lavorando, per ora non le dico niente. Però, ho imparato a non credere alle versioni governative anche quando sembrano verosimili. L’ex sindaco di Iguala, Luis Abarca è stato arrestato per aver ordinato la repressione e il massacro degli studenti. Quel che è certo, è che la moglie appartiene al clan mafioso dei Guerreros Unidos. Ma non le sembra suicida che ordini di far sparire 43 ragazzi nella sua giurisdizione? Chi può essere così stupido? Il governo deve dire la verità, e gli studenti hanno ragione a continuare. Sono appena tornata da un giro nella Esquela Rural Ramon Isidro Burgos di Ayotzinapa, a cui appartengono i 43 scomparsi. Se ci vai, capisci perché questi ragazzi sono decisi a non fermarsi. Su ogni parete, vi sono immagini del Che e del maestro Lucio Cabañas, vittima della guerra sporca del governo, guerrigliero del Partido del Pueblo. Scuole rivoluzionarie che non accettano la povertà e gli abusi dell’esercito decisi dal governo, e per questo sono sovversive: nel miglior senso della parola. Magari questa loro sovversione potesse contagiarci tutti.