La settima edizione del Sicilia Queer filmfest, che si apre a Palermo il prossimo 24 maggio e prosegue fino al 1 giugno, presenterà per la prima volta in Europa una retrospettiva integrale dedicata al cinema di Gabriel Abrantes, ospite della sezione «Presenze». In anteprima per Alias un estratto della conversazione che ripercorre tutta la sua filmografia, pubblicato sul catalogo del Sicilia Queer.

Guardando i tuoi film si ha l’impressione che tu rappresenti una sorta di incrocio tra vari mondi: in te coesistono il mondo dell’arte e il mondo del cinema, la commedia e il melodramma, gli Stati Uniti e il Portogallo – e tutto ciò che il Portogallo rappresenta in termini di storia, politica e rapporti con le colonie. Chi sei, Gabriel Abrantes?

È un po’ complicato. In termini biografici ho vissuto in molti paesi: Portogallo, Stati Uniti, Belgio, Francia… e più tardi ho iniziato a viaggiare per girare i miei film. Uno dei temi principali che tento di affrontare nei miei film tratta proprio di questo, l’artificialità del concetto di nazione e di identità nazionale. Ma mi interessa molto anche l’idea di cultura (cinematografica o artistica) come forma di propaganda nazionalistica. Fin dal suo debutto con Nascita di una nazione (1915) di Griffith è come se il cinema avesse iniziato immediatamente con una declamazione nazionalista e razzista. Anche il titolo è piuttosto orrendo. Ogni tanto vengo presentato come regista portoghese, altre volte provano a vendermi come cineasta statunitense. Dal mio punto di vista è solo una questione di marketing, e anche in termini sociali è facilmente discutibile: abbiamo sempre meno legami con le nostre nazioni, anche se è interessante osservare i cambiamenti degli ultimi cinque anni, con il rafforzamento e l’espansione dei movimenti populisti e xenofobi, in Francia e negli USA, grazie a Le Pen e Trump. In tutti i miei film provo a dar vita a situazioni ambigue per mostrare come le nozioni di nazionalità e personalità siano molto fragili, piuttosto facili da decostruire e non siano così forti e fisse come alcuni vorrebbero.

Questa volontà di contestare il concetto di identità nazionale riporta direttamente al tuo cinema, che tende a mettere in discussione varie forme di identità: quella di un’opera d’arte (l’Olympia di Manet, ad esempio, o la Principessa X di Brancusi), dell’immagine di un popolo, o di generi come la commedia e il dramma, tentando di non lavorare su di un unico genere cinematografico.

Amo lavorare con degli ibridi (di genere, sessuali o nazionali) e giocare su di essi, perché penso che abbiano il potenziale per destabilizzare lo spettatore e questo mi interessa. Anche se i miei film non sono troppo seri si diventa leggermente ansiosi guardando Olympia, dove uno scherzo può portare a mettere in dubbio determinati pregiudizi che ci si è costruiti nella propria testa. Ma non credo che i miei film siano «militanti» in termini classici, e anzi questo può far arrabbiare molte persone, perché tratto tematiche politiche anche se i miei film non sembrano politici. Utilizzare la commedia o i generi in modo non tradizionale è per me un atto direttamente politico, anche se molto distante da un documentario attivista classico. Mi è spesso sembrato che il mondo dell’arte fosse chiuso in una sorta di circolo incestuoso, fatto da un gruppo socio-politico ed economico estremamente limitato, anche se la situazione è un po’ cambiata con questi nuovi musei vagamente populisti come la Tate Modern. Il cinema nasce invece come linguaggio popolare, ed io (pur non facendo un cinema pienamente popolare) provo sempre di più a girare film che seguano le tracce di quel linguaggio. Con A Brief History of Princess X credo di esserci arrivato il più vicino possibile.

Una retrospettiva al Lincoln Center di New York lo scorso anno ha proiettato alcuni tuoi lavori insieme a quelli di altri tuoi coetanei (Benjamin Crotty, Alexander Carver, Daniel Schmidt) presentandovi come un gruppo di new american filmmakers. Oltre all’amicizia che vi lega e al linguaggio indipendente che utilizzate, credi ci siano altri elementi che autorizzino a pensarvi quasi come una banda?

Penso che condividiamo una più ampia questione ideologica, e che sentiamo una forte esigenza di volerci affermare in maniera etica o morale. Credo derivi dal fatto che abbiamo assistito, anche tramite i nostri genitori, alla parabola di un movimento politico recente che si è conclusa diventando un incubo. I miei genitori erano comunisti rivoluzionari negli anni ’70 e sono diventati neoliberali negli anni ’90. Mettere in dubbio quei movimenti sociali utopici e idealistici è stato un modo per restare fedeli a quello che proviamo. Siamo tutti estremamente scettici nei confronti di un certo tipo di attivismo, e lo stesso scetticismo vale anche per i generi cinematografici: abbiamo difficoltà a girare un dramma sentimentale o una slapstick comedy, o qualsiasi altra forma di film a tema. Credo che la si possa definire «un’ansia postmoderna». Tutto ci sembra un pastiche, ed è proprio quello che non vogliamo fare, quindi non ci fermiamo su un unico genere e finiamo per fluttuare da un genere a un altro, ma il risultato diventa una sorta di mostro postmoderno che a sua volta crea un pastiche di diversi generi. Probabilmente tutto nasce dal fatto che siamo stati spinti a mettere in discussione i generi e i medium e i modi tramite i quali essi influenzano la politica del film. C’è una frase di Godard che dice: «les travellings sont affaire de morale», o qualcosa del genere. E cioè: le carrellate sono un’invenzione di Hollywood e del sistema capitalistico per far apparire le cose come eleganti e meravigliose, quindi facendo una carrellata è come se si agisse da capitalisti. Non c’è modo di separare questi due aspetti, e Il Disprezzo lo mostra in modo molto bello: è il suo film americano, lo gira in technicolor cinemascope, e nella prima inquadratura la macchina da presa riprende se stessa tramite una carrellata, mentre Godard presenta il cast in voice over. È una scena stupenda, una delle mie preferite. Credo sia per questo che Benjamin, Daniel, Alexander e io abbiamo avuto questo impulso – è più un impulso che una convinzione – di mettere in questione i generi cinematografici. Appena inizi a utilizzarli ne riconosci la storia e ti rendi conto di quanto siano discutibili certe manipolazioni che sono rese possibili da una colonna sonora particolarmente sentimentale, o altri espedienti simili. Forse una fragilità del nostro cinema è che crea una forma di distanza. Per me questo aspetto è ciò che lo rende piacevole, ma arrivato a questo punto del mio lavoro sono molto curioso di provare anche qualcos’altro.

La tua critica alla politica è certamente una critica non populista e di sinistra, ma rimane aperta la questione delle possibilità della sinistra nel mondo post post-moderno. Sei deluso dalla tua storia familiare e dal mondo che ci circonda, eppure continui a credere che il cinema abbia un rapporto con la politica. Quali possibilità pensi che possa avere ancora oggi il cinema?

Quello che faccio deriva da un idealismo piuttosto ingenuo. L’arte ha avuto un impatto molto forte sulla mia giovinezza e sul mio modo di vedere il mondo. Tramite l’arte ho maturato la consapevolezza che il mondo non era necessariamente ingiusto, anche se in tutti gli altri ambiti mi sembrava che lo fosse. Vedevo ingiustizie a scuola, nella mia famiglia, al telegiornale. L’arte era per me una forma di rifugio, all’interno del quale mi sentivo in compagnia e potevo sperare in un futuro migliore; e credo di provare ancora oggi lo stesso sentimento di quando avevo tredici anni. Credo che molti artisti considerino che il loro lavoro possa essere di aiuto al mondo intero, anche se in realtà è un punto di vista che si può facilmente mettere in discussione, perché i critici d’arte e gli estimatori sono un gruppo così ristretto che sembra quasi un rapporto incestuoso. Inoltre l’ambiente artistico è talmente mafioso e incentrato sulle lobby che questo amore per l’arte diventa una forma di amore narcisistico. In ogni caso quello in cui ancora credo è che l’arte sia la prova che c’è qualcosa di meglio che una morale dualistica. Per questo il mio scopo in molti film è quello di far sentire il pubblico leggermente a disagio mettendolo a confronto con i suoi pregiudizi o con le sue aspettative. Quando un quadro o un film ci sorprendono, non necessariamente tramite uno shock ma anche solo tramite un vago disagio, qualcosa nel nostro cervello accetta che il mondo non è più com’era prima, che c’è qualcosa che non avevamo compreso precedentemente, e che tutto d’ora in poi è leggermente diverso. Insomma concepiamo la possibilità di qualcosa di nuovo. Questa equazione basica che consiste nell’essere colti di sorpresa da uno shock estetico ci fa credere che forse non sappiamo tutto e che ci sono ancora cose che possiamo fare. Mi sembra che sia questo ciò che mi muove, un impulso a fare qualcosa che metta le persone in uno stato d’animo per il quale non vedono più le cose come le vedevano cinque minuti prima, che non accettino più tutto allo stesso modo. Credo che questa sia una buona cosa, e lo rimane nonostante il fatto che la fruizione dei miei film è ridotta co. Ma questa frustata è stata gia una ristretta élite composta da un pubblico ricco e colto, come il pubblico di un festival o di una galleria d’arte. In sostanza questa è la visione politica che viene da una parte molto sincera di me e può essere sintetizzata così: «l’arte mi ha fatto stare bene e mi ha dato speranza quando ero un ragazzino e oggi mantengo questo credo».

Nei tuoi film non è mai assente la dimensione del desiderio, come mai?

Quando ho iniziato a fare film ero contrario al «desiderio nell’arte». In quel periodo leggevo molto Fernando Pessoa, nei cui scritti manca totalmente il desiderio. Trovavo che questo aspetto fosse molto interessante, mentre mi sembravano di cattivo gusto quegli scrittori statunitensi che facevano i machos alla Ivy League, come John Updike, Philip Roth o anche Henry Miller. Non sopportavo la loro visione misogina e patriarcale. A un certo punto però ho iniziato quasi a forzarmi a pensare in un altro modo, mi sono imposto la regola di inserire almeno una scena di nudo in ognuno dei miei film. In quel periodo ho iniziato a leggere Georges Bataille e il Marchese de Sade e a guardare i film di Pier Paolo Pasolini. Credo però che il libro che mi abbia ispirato di più in assoluto sia stato L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. La storia che racconta è incentrata sull’attività sessuale di un uomo: ventiquattr’ore dopo che l’uomo ha consumato un rapporto sessuale un missile tedesco cade nello stesso punto di Londra in cui è avvenuto il rapporto, mentre un detective tenta di mettere insieme i pezzi e capire cosa sta succedendo. Pynchon collega l’idea di desiderio con quella di massacri e spargimenti di sangue. Questo libro per me ha rappresentato la chiave d’accesso per poter parlare di sessualità e di desiderio; perché collegati all’oppressione e ai giochi di potere, che valgono alla stessa maniera a letto o tra due nazioni. E questa formula metaforica è diventata uno strumento che in seguito ho utilizzato nei miei film e che mi ha attratto anche in Bataille e Pasolini. Pasolini parla molto di questo, del fatto che viviamo in un mondo comandato dalla morale borghese, mentre dovremmo tornare a una nozione medievale della sessualità. Tutto questo è anche profondamente connesso alla mia fascinazione per il cinema ai suoi inizi, il cinema delle attrazioni, nel quale il desiderio e la nudità erano rappresentati come attrazioni basiche. Di qui la mia curiosità: ho rifiutato la dimensione del desiderio finché non ho trovato un modo di utilizzarlo che mi sembrava nuovo, ironico e anche politico.

Che rapporto pensi di avere con quello che viene definito come cinema Queer?

Sono sempre stato molto interessato al cinema Queer. Probabilmente una delle ragioni per cui ho iniziato a fare cinema è stata l’aver visto film di registi come Kenneth Anger o Andy Warhol. Di Warhol trovo esilaranti gli Screen Tests e anche i film che fece in collaborazione con Paul Morrissey, mentre Kenneth Anger è uno dei miei registi preferiti fin dall’università per il suo modo di ribaltare la sessualità dei protagonisti, ad esempio i biker omofobi di Scorpio Rising che lui trasforma in icone gay, oltre a presentare Gesù e i nazisti come icone gay. Mi è sembrato un metodo interessantissimo, ed è quello che ho tentato di fare in tutti i miei film, proporre delle visioni più ambigue, più queer dei caratteri dei personaggi, come anche degli oggetti, dei dipinti, della storia dell’arte e dei generi cinematografici. Applico un ribaltamento, tento di deviare le aspettative sui generi. Ribaltare, creare una torsione, è come se fosse il mio metodo standard di lavoro; la mia ambizione è quella di raggiungere un punto nel quale lo spettatore deve accettare il fatto che tutto è leggermente più ambiguo di quanto non sia portato a credere vedendo i film commerciali, o anche vedendo alcuni film più artistici. Insomma le cose sono molto più complesse di quanto non appaiano dalle loro «bolle» sia che si tratti della nicchia di cinefili appassionati di cinema francese, o di quella delle classi più basse del Midwest degli Stati Uniti. Tutti utilizzano il filtro della loro moralità (o immoralità), dell’etica o dell’emotività, ma una volta che si suggeriscono altre prospettive al loro modo di vedere, tutto diventa più ambiguo. Questo pensiero mi è stato suggerito da Pierre Bourdieu e dalla sua teoria secondo la quale i gusti culturali sono fortemente influenzati dalla bolla socio-economica all’interno della quale siamo cresciuti; e il mio metodo è quello di deviare le cose in maniera tale da obbligarci a vederle tramite un’ottica differente.

Qual è il tuo rapporto con il cinema portoghese?

Credo che i registi che più mi hanno influenzato nel panorama del cinema portoghese siano João Pedro Rodrigues e João César Monteiro, e in un certo senso anche Miguel Gomes, e António Reis e Margarida Cordeiro, i registi di Trás-os-Montes. Ricordo molto bene la prima volta che ho visto O fantasma di João Pedro Rodrigues: è sorprendente prima di tutto il fatto che un film di questo tipo sia stato fatto, e con quello stile e quel tono. João Pedro Rodrigues ha girato un film che arriva al pubblico come una frustata, è hardcore e deviato, S&M e omoerotirata con uno stile da film autoriale europeo, estremamente sobrio e contenuto, un mix veramente sorprendente. Ci sono poi tantissimi altri registi portoghesi che mi interessano, giovani o anziani: una comunità molto coesa e al contempo competitiva.

* direttore artistico
del Sicilia Queer