Nel 1997, Mondadori pubblica Textos Costeiros (Obra periodistica, vol. 1) che in Italia compare con il titolo Scritti costieri 1948-1952. Preceduto da un saggio di Jacques Gilard, il ponderoso volume raccoglie gli articoli che un Gabriel Garcia Marquez poco più che ventenne aveva scritto per il quotidiano El Universal di Cartagena. L’Appendice ospita due testi, di cui uno sorprendente, La casa dei Buendía (Appunti per un romanzo). Il curatore annota «Presentiamo questi due testi che, pur collocandosi al margine dell’opera giornalistica di Gabriel Garcia Marquez in quanto non comparsi sui giornali dove egli scriveva nel periodo considerato, sono finora inediti». Ecco un breve stralcio dagli Appunti «Quando Aureliano Buendía tornò al paese, la guerra civile era finita. Forse al nuovo colonnello non rimaneva nulla dell’aspro peregrinare. Gli rimanevano appena il titolo militare e una vaga incoscienza del proprio disastro. Ma gli rimaneva pure la metà della morte dell’ultimo Buendía e una razione intera di fame.

Gli rimaneva la nostalgia dell’atmosfera domestica e il desiderio di possedere una casa tranquilla, quieta, senza guerra, che avesse una facciata per il sole e un’amaca nel cortile, fra due pali di sostegno». Le radici di Cent’anni di solitudine erano piantate, i frutti avrebbero raggiunto piena maturazione quindici anni dopo. Il romanzo arrivò nel nostro Paese in pieno ’68, tradotto da Enrico Cicogna e pubblicato da Feltrinelli. La saga dei Buendía si svolgeva in un luogo lontanissimo da un’Italia dove Cina, Angola, Mozambico, Cuba, Cile, Vietnam venivano evocati soltanto nelle file dei cortei; la gente, la natura, i villaggi, la vita quotidiana che popolava la saga, erano agli antipodi della nostra cultura. Eppure la magia di Cent’anni di solitudine, la bellezza e l’armonia del linguaggio di Marquez, stregarono subito le nuove generazioni. Le oltre quattrocento pagine vennero divorate, lette e rilette, discusse nei luoghi della politica fuori dal parlamento (il centro sociale autogestito che negli anni ’70 ebbe in Mauro Rostagno il suo fondatore, si chiamava Macondo), regalate, comprate sulle bancarelle di libri usati. Il rapporto del fotografo Fausto Giaccone con il capolavoro dello scrittore colombiano, oggi sfociato in un libro di straordinarie immagini bianco e nero, Macondo, The World of Gabriel Garcia Marquez, Edizioni Postcart, comincia durante il servizio militare.

Lo ricorda Giaccone stesso negli appunti che seguono al prologo di Gerald Martin e al bel testo critico di Giovanni Chiaramonte «Ho letto Cent’anni di solitudine mentre facevo un ben poco guerresco servizio militare, spostando carte da una scrivania all’altra in un ufficio a Roma. Per sfuggire alla noia di quei giorni leggevo di tutto, a ritmo frenetico. Eppure furono quelle pagine, quelle e non altre, che, svelandomi il mistero e il fascino di mondi sconosciuti, diventarono il salvagente che mi permise di restare a galla durante uno dei periodi più scoraggianti e problematici della mia esistenza. Ricordo che pensavo ‘Questo libro mi sta salvando la vita’. Era il 1971, e a malapena sapevo quale fosse la collocazione della Colombia sulla carta geografica».

Terminato l’obbligo dei 18 mesi di caserma, Fausto prosegue il suo percorso professionale dietro l’obbiettivo, e nel 1987, finalmente, mette piede in Colombia. Il settimanale Epoca gli ha commissionato una serie di servizi sull’America Latina. Quel percorso Giaccone lo rievoca oggi nel suo piccolo studio, a Milano, zeppo di mobili da ufficio a loro volta zeppi, ritagli, collezioni di riviste, libri di maestri della fotografia «Da Cartagena, grazie ad alcune conoscenze, andai a Mompox, una dimensione molto particolare, dimenticata, sulle rive del rio Magdalena. Molti fra gli stessi colombiani ne conoscono appena il nome. Ci tornerò tre volte. Fu lì che cominciai a fantasticare sulla possibilità di lavorare intorno a Marquez e ai suoi luoghi. Nel 1990 mi trovavo, sempre su commissione, in Paraguay, per documentare la vita di una comunità di Mennoniti.

Nelle due settimane di permanenza, a un certo punto rimasi senza nulla da leggere. In una libreria di Asunciòn trovai El jeneral en su labirinto (Il generale nel suo labirinto, altra opera fondamentale nella bibliografia di Marquez, ndr), l’inizio del mio rapporto con Marquez attraverso la realtà del territorio. A dicembre dello stesso anno tornai a Cartagena per un mese. Il centro del viaggio fu la navigazione lungo il rio Magdalena, che attraversa longitudinalmente tutta la Colombia, dall’estremo sud fino a sboccare nel Mar del Caribe. Ricalcai le tracce di Simon Bolìvar, in volontario esilio dopo le sue dimissioni e diretto verso l’Inghilterra dove mai arrivò. Malato di febbre tifoidea e di reumatismi, si fermò e morì a Santa Marta». La realizzazione di altri servizi riporta svariate volte Giaccone in Colombia. Ma l’anno cruciale è il 2006.

È allora che il reporter già innamorato di Gabo decide di dedicare cuore e macchina fotografica alla realizzazione di un libro che documenti, o meglio interpreti, perché questa è la chiave attraverso cui accedere al significato autentico delle immagini in bianco e nero di Macondo, la topografia dei romanzi e della vita di Marquez. Senza una scaletta precisa, senza una ‘sceneggiatura’, Fausto compie tre viaggi tra il 2006 e il 2010. Mescola, sovrappone, incrocia, la rilettura delle opere dello scrittore e della sua autobiografia, Vivere per raccontarla, allo sguardo dell’obbiettivo. Importante e ulteriore supporto sarà la biografia Gabriel Garcia Marquez: A Life, 2008, pubblicata da Gerald Martin, uno dei massimi conoscitori mondiali di letteratura latinoamericana.

I ripetuti incontri con uno dei fratelli di Gabo, Jaime, e con la gente, specie gli anziani, detentori della memoria; la frequentazione sempre più intima di paesaggi e paesi, spianano la strada a una vera e propria impresa (Giaccone si muove in proprio, senza committenza) che va assumendo connotati molto precisi: le immagini non devono essere didascaliche, pur non omettendo riferimenti precisi quando essi risultino coerenti; sono destinate, certo, a chi ama e conosce Marquez, ma al tempo stesso raccontano la Colombia della ‘Costa’, termine ammantato di vaghezza. Nel prologo, Roger Martin scrive «La Colombia è il solo paese dell’America Latina ad affacciarsi sia sul Pacifico che sul Mar dei Caraibi: la costa del Pacifico a occidente e la caraibica a nord… È qui che ci si confonde, poiché la costa settentrionale laggiù è chiamata, di regola, la Costa Atlantica, ma anche la Costa Caraibica, il che è molto più logico. Non sorprende pertanto che essa venga quasi sempre chiamata ‘la Costa’, nonostante quella del Pacifico sia altrettanto estesa, pur se in gran parte inaccessibile. Infine, ad aumentare gli equivoci, tutto il nord del paese, incluse le province di Córdoba, Sucre, Bolívar, Atlántico, Magdalena, Cesar e Guajira, è incluso in questo concetto di ‘la Costa’, anche se le loro propaggini meridionali si estendono sino a trecento chilometri dal mare». Geografie perfettamente calzanti a Marquez.

Ma è altrettanto calzante l’uso del bianco e nero fotografico, quando, in qualunque angolo del Tropico, trionfano i colori? Giaccone ha alle spalle un passato di ‘cronache dei fatti’, ’68 in testa, dove il bianco e nero era assoluto protagonista. Nei primi anni ’80 arriva il colore, e da lì in poi sarà imposizione cromatica in ogni reportage professionale. Il periodo di elaborazione di Macondo coincide con alcuni anniversari, di nuovo prima fra tutti il ’68 e il suo quarantennale. Le foto realizzate allora sono asciutto ed eloquente bianco e nero. Fausto torna al primo amore, e parallelamente si mette a studiare, suo l’uso del verbo, la storia della fotografia «In questa operazione, che non ha mai voluto essere concettuale, cervellotica, a tavolino, entrava il desiderio di riconsiderare la storia della fotografia. Venivo da vent’anni di viaggi ipercolorati, e volevo tenermi lontano dalla possibilità di un’interpretazione turistica delle immagini.

Nessuna di loro, infatti, indulge alla spettacolarizzazione». Sintonia perfetta con Gabo, narratore che parte da universi umili come quello di Arataca-Macondo, dove era nato e aveva vissuto fino a otto anni «Ad Aracataca fai fatica a trovare qualcosa da fotografare. Ci riesci se conosci la vita di Marquez. E allora puoi scoprire che dietro le insegne dei supermercati e dei monti dei pegni sulla facciata di un edificio, si nasconde la vecchia scritta ‘Teatro Olimpia’. Nella Zona Bananera intorno ad Aracataca, quella della multinazionale United Fruits, sono andato alla ricerca delle case antiche, vale a dire vecchie non più di un secolo: edifici fatti di liste di legno larghe e orizzontali, tetto di zinco e contro soffitto per il calore; palazzine ad imitazione povera dell’Art Deco. Sono poche architetture superstiti, le altre le ha spazzate via il cemento». La magia di Cent’anni di solitudine, ma non solo, si svela tappa dopo tappa, viaggio dopo viaggio. È una magia fatta di finzione, senza dubbio. Che parte, però, dalla realtà. Così Giaccone arriva a una seconda Macondo, mescolata da Gabo con Aracataca. La incontra tra le acque lagunari di Sucre Sucre. Qui, lo scrittore ha ambientato Nessuno scrive al colonnello e La Mala Ora, anticipazioni dei temi che la saga dei Buendía farà suoi e amplierà a magnifica dismisura.

La piazza di Sucre Sucre diventa il palcoscenico su cui va in scena anche Cronaca di una morte annunciata, basato su un fatto autentico e ben conosciuto dalla famiglia Marquez che, allora, abitava nella casa accanto a quella dei fratelli omicidi per delitto d’onore. Venticinque anni di lavoro, assai meno dei cento del romanzo, rappresentano comunque un lungo scorrere del tempo, dentro cui puoi riflettere, riconsiderare, cambiare. Per arrivare, a mettere a fuoco te stesso. Così che la macchina fotografica restituisca il tuo pensiero finalmente concluso. Macondo è una sequenza di pareti scrostate alle spalle dei suoi protagonisti; di nature morte fatte di macchine per scrivere, stanze con l’immagine del Cristo in bella vista, proiettori un tempo in uso al Teatro Olimpia e abbandonati alla polvere, un cane magro che arranca sul terreno; è una galleria di volti, occhi, gesti, espressioni, mestieri, solitudini, fatica, ozio, fermati sulla pellicola nel momento in cui altro non esprimono se non l’esistenza quotidiana. Senza che mai sorga il sospetto dell’artificio della messa in posa. Di nuovo Gerald Martin e il suo prologo, citazione conclusiva che rende onore al lavoro di Fausto Giaccone «… Ciò che soprattutto mi piace in questo libro è la sensazione – quanto mai intensa – che Fausto abbia scattato queste foto per amore della gente che vi appare.

Immagini riprese non solo perché questa gente vive in luoghi di per sé straordinari…; non solo perché costituisce, per così dire, la materia prima e la fonte di ispirazione per i personaggi di un grande narratore; ma anche per un profondo rispetto per gli individui ritratti e per le loro vite, un rispetto sincero e mai paternalistico, un rispetto tangibile, più che evidente. Tali immagini sono mirabilmente democratiche: letterali, ma non letterarie, potremmo dire».

BOX su libro e Postcart

Macondo, The World of Gabriel Garcia Marquez, pp. 130 + 22, euro 40, disponibile nelle migliori librerie, oppure sul sito postcart.com, continua il coraggioso cammino editoriale in campo fotografico della romana Postcart, fondata da Claudio Corrivetti. Il libro di Giaccone segue ad altri titoli quali Gypsy Interiors di Carlo Gianferro, ritratti in interno del popolo Rom tra tessuti, luci e arredi delle loro anomale case; Tehran Echoes, di Pietro Masturzo e Carlo Maddalena, che documenta la ribellione dell’Onda Verde iraniana nel giugno 2009, sui tetti della capitale; Hospital Life, di Laura Salvinelli, entrata nelle strutture ospedaliere della cooperazione in Afghanistan per documentare la quotidianità di un lavoro difficile e delle sofferenze non solo fisiche delle popolazioni; Una historia cubana, di Dario De Dominicis con testo di Guido Mormorio, reportage disincantato e affettuoso sull’isola (L. D. S.)