Corpi bianchi candidi che si stagliano su palcoscenici silenziosi e minimali, movenze aggraziate e lentissime che giocano con la gravità. Una dimensione sospesa che non appartiene a questo mondo, ma che trasporta fuori dal tempo, oltre la vita e oltre la morte parlando un linguaggio universale, semplicemente umano. Questo è la danza Butoh. In particolare il Butoh della compagnia Sankai Juku di Ushio Amagatsu, nata nel 1975 con 8 membri e oggi confermata come la più internazionalmente riconosciuta.

Di casa a Parigi e in gran parte d’Europa, In Italia mancava invece da tanti anni dopo il successo degli anni Ottanta e, come raccontava divertito Ushio Amagatsu qualche mese fa, prima di avere la conferma della tappa ferrarese di stasera al Teatro Comunale Claudio Abbado, la loro assenza sembra essere segnale di due epoche del nostro Paese. Si perché caso vuole che la loro presenza prevista più volte in Italia nei decenni passati si sia incrociata e sia stata segnata da negativamente prima che dalla crisi economica anche che da accadimenti locali ben lontani dalla loro realtà, quali il concerto dei Pink Floyd a Venezia e l’incendio del Teatro La Fenice. Oggi il loro ritorno in Italia con lo spettacolo Utsushi (letteralmente: riflesso), creato nel 2008, è più che mai atteso, non solo da pubblico ma da Amagatsu stesso. Diversamente dai suoi maestri Hijikata e Ohno che affermarono il Butoh come «danza delle tenebre» (Ankoku Butoh), ciò che Amagatsu mette in scena è una danza di affermazione dell’essere umano.

Una danza valida per tutti, che ricerca le diversità culturali per ricavarne alla fine il senso comune, l’aspetto universale. Si mettono in scena nascita e morte, la corrispondenza con la natura, il dialogo tra corpo umano e gravità come prima forza con cui l’individuo deve porsi in relazione da quando nasce per arrivare a fare i primi passi. Ciò che appare come leggerezza estrema nei movimenti dei danzatori, privati della forza che viene piuttosto assimilata anziché emessa, in realtà è frutto di strenuo esercizio quotidiano per arrivare alla forma naturale perfetta raggiunta quando la mente e il corpo diventano un tutt’uno e non c’è più pensiero e tutto diventa automatico. Niente a che fare con la meditazione precisa Amagatsu; nella danza c’è esercizio e consapevolezza. La pratica di ogni spettacolo comincia in silenzio, senza parole né musica, con movimenti osservati dal maestro ma in uno spazio privo di specchi proprio per evitare la raffinazione estetica delle posture. Solo alla fine subentra il coreografo per definire lo spettacolo e dar vita all’opera. Un compimento che si fa spiegando prima a parole le situazioni e i sentimenti da mettere in scena, con chiarezza, dice Amagatsu. Storie che possono nascere da un’immagine, da una parola o da una frase e che convogliano simbolicamente il senso della vita, del tempo. Acqua, sabbia, un uovo, lo specchio; luci soffici e uno spazio pressoché vuoto sono i mezzi per condurre lo spettatore in un’ora e mezza di spettacolo allo stato di calma, di abbandono.

E nessuno immaginerebbe vedendo gli spettacoli di Amagatsu che dietro a tanta essenzialità, ai nostri occhi occidentali assimilabile a un dipinto a inchiostro monocromo, si celi invece uno spirito che si nutre di colori, che ama Vermeer e il Rinascimento fiorentino, così come Bacon o sculture del buddhismo arcaico come la divinità Ashura, dalle sei braccia e dalle tre teste, ma col volto di fanciulla. Né si immaginerebbe facilmente, assuefatti da un Giappone «zen», che nel Butoh di Amagatsu il colore bianco che copre il corpo dei danzatori non sia scelto come simbolo di negazione, ma rappresenti invece il colore universale, appartenente a tutte le civiltà dall’Africa all’Europa all’Oriente.

Amagatsu a più riprese afferma la scelta del bianco come colore legato alla festività, alla ritualità, a un tempo non quotidiano, ma speciale come si riscontra nelle maschere e nei riti legati alla morte e al matrimonio. In Giappone più che altrove vive ancora oggi nelle forme teatrali tradizionali come il kabuki, il bunraku o il no, ma non è peculiarità giapponese come facilmente si tenderebbe a pensare. Solo un triangolo rosso sangue dipinto sotto il lobo dell’orecchio dei danzatori interrompe il candore dei corpi nel teatro Butoh, e anche qui si tenderebbe a pensarlo come una scelta puramente estetica, valutazione che Amagatsu interrompe velocemente riportando ancora una volta la questione all’esercizio e alla pratica fisica come consapevolezza di sé. Quel rosso è il limite, la «deadline» di sé. È la tensione interiore. Nessuno spazio ai vezzi e agli estetismi. Ciò che si è dentro si è anche fuori. E lo specchio nella tradizione orientale ha questo potere: di riflettere la parte più intima di sé oltre la forma esteriore. Utsushi. tra due specchi riporta a questa dimensione di confronto con l’altro come ombra di sé.